Tutti addosso alla zootecnia: inquinamento, emissioni, consumi di acqua e sprechi di cibo. Temi presentati dai media in modo sensazionalistico e spesso orientato dal punto di vista ideologico.

Su alcuni dei temi salienti legati alla zootecnia AgroNotizie ha intervistato Giuseppe Bertoni, professore emerito presso il Dipartimento di Scienze animali, della nutrizione e degli alimenti dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza.

La zootecnia è per l'ennesima volta sotto attacco, venendo accusata perfino di essere fra le cause di epidemie come quella recente dovuta a Covid-19. Davvero gli allevatori lombardi e delle regioni limitrofe possono essere guardati come untori?
"Non so bene a cosa di preciso facciano riferimento i detrattori della zootecnia. Se è per l'origine zootecnica del particolato, tramite deiezioni, basterebbe leggere l'articolo pubblicato su La Repubblica il 30 marzo per comprendere come le variazioni degli inquinanti nell'atmosfera dipenda anche dai movimenti di masse d'aria, per cui il pulviscolo sottile, noto anche come PM10, sia ormai internazionale. E comunque, la quota di origine zootecnica sarebbe un'inezia sul totale. Diverso il discorso se invece si parla delle ipotesi fantasiose di chi ha tentato un parallelo fra commercio di fieno-bovini e la diffusione della Covid-19. In tal caso preferirei limitarmi a dire che 'associazione' fra due fenomeni – se esistente, cosa di cui dubito semplicemente a buon senso, che purtroppo non è in vendita – non significa causalità. Per favore, combattiamo le 'bufale' con una sorta di 'gogna mediatica' di chi le diffonde…".

Dalla Fao sono giunti studi che dimostrano come i bovini da carne consumino alimenti che per l'86% non sarebbero tali per l'uomo. Eppure la percezione più diffusa è che essi competano con gli Esseri umani per il cibo. Può spiegare meglio tali dinamiche?
"Una premessa è doverosa: è vero che dell'energia e delle proteine che noi diamo agli animali, non più del 10-30% ce lo ritroveremo nel piatto. Tuttavia, l'argomento non si può chiudere con un 'non ne vale la pena', per più ragioni. In primis, anche i pannelli solari non sono particolarmente efficienti nel catturare l'energia solare, ma essendo questa gratuita, come del resto molti alimenti per il bestiame come evidenziato dalla Fao, credo valga l'approccio del 'meglio poco che nulla'. In secondo luogo, sempre con riferimento ai pannelli solari, la ricerca consente di migliorare progressivamente la loro efficienza e noi stiamo facendo la stessa cosa con gli animali. Per produrre un chilogrammo di pollo serve meno della metà del mangime che serviva 50-60 anni fa. Ciò è stato possibile mediante una corretta intensificazione degli allevamenti. Infine, terzo punto, anche qui usando la metafora dell'energia, l'essere umano ha un bisogno stringente di una certa quota di alimenti di origine animale, al fine di garantire lo sviluppo fisico e mentale, ma anche per ottimizzare il sistema immunitario e per altre funzioni fisiologiche. Dunque, questo minimo di alimenti di origine animale deve pur essere assicurato… costi quel che costi!".

Una quota dell'alimentazione umana è bene derivi da alimenti di origine animale. Non si devono però confondere i reali bisogni con gli eccessi
Una quota dell'alimentazione umana è bene derivi da alimenti di origine animale. Non si devono quindi confondere i reali bisogni con gli eccessi
(Fonte: © Sergio Martinez - Adobe stock)

Fra zootecnia intensiva di stampo europeo o nordamericano e quella brada argentina e brasiliana corrono profonde differenze. Quali sono i punti chiave che rendono così diversi fra loro i due modi di allevare il bestiame da carne?
"Le differenze sono numerose e cercherò quindi di farne una sintesi, nella speranza che non ne scapiti troppo la chiarezza. Intanto distinguerei le due fasi classiche dell'allevamento da carne, cioè la produzione di un giovane soggetto da 'ingrassare', che implica una madre, la fattrice, che lo porti nove mesi in grembo e che poi per 6-8 mesi lo allatti. La seconda fase 'classica' è la crescita finale con finissaggio di questo giovane soggetto, immediatamente prima della macellazione. Un periodo, questo, che può durare 6-8 mesi o più, a seconda di come lo si fa. Nella prima di tali fasi in Sud America sono le condizioni pedo-climatiche, ma anche quelle socio-economiche, che permettono di avere superfici e mandrie enormi che spesso implicano razze derivate dagli zebù, molto più adattabili all'allevamento brado. Fra Nord America ed Europa vi sono ugualmente grosse differenze, ma queste due aree sono accomunate dal fatto di poter utilizzare razze meno rustiche e specializzate per la carne. Anche nella seconda fase, quella di finissaggio, vi sono grosse differenze fra le due tipologie di allevamento, poiché in Sud America la razza e il tipo di carne richiesto, decisamente più magra, implicano una minore intensificazione del processo e spesso avviene sul pascolo. In Nord America e in Europa, invece, lo si fa per periodi più brevi, quasi sempre nei cosiddetti 'feedlots' con elevati apporti di insilati-cereali, quindi le carni tendono ad essere più o meno marezzate di grasso. In entrambi i casi, però, si fa ricorso - specie per la prima fase - a superfici da pascolare che difficilmente potrebbero essere coltivate. Inoltre, già per sé il pascolo ben gestito è una forma prossima alle condizioni naturali. Si ricordino a tal proposito i film americani con le immense mandrie di bisonti nelle praterie… ai tempi degli 'indiani'. Ma anche oggi si propongono sistemi cosiddetti silvo-pastorali che accentuano tale prerogativa, specie per quanto riguarda la biodiversità".

 
Bovie al pascolo nelle malghe: non esiste solo un tipo di zootecnia (Foto: Donatello Sandroni)
Bovine al pascolo nelle malghe: non esiste solo un tipo di zootecnia
(Fonte: © Donatello Sandroni)

Fra le accuse mosse agli allevamenti vi è quello di consumare moltissima acqua. Addirittura 15mila litri per ogni chilo di carne. Ma davvero negli allevamenti viene utilizzata tutta quell'acqua?
"Anche qui serve una premessa: i litri di acqua necessari per produrre un chilo di carne sarebbero 15mila, secondo un ragionamento che in parte è vero, essendo l'efficienza del processo molto bassa. Si pensi solo a quanto tempo - circa un anno - la fattrice deve mangiare per produrre un solo giovane pronto per essere ingrassato e quanto alimento servirà a lui per essere pronto alla macellazione. In verità il calcolo dei 15mila litri sembra fatto da un 'amico del giaguaro', cioè considerando le peggiori condizioni. Tuttavia, questa non è l'obiezione più importante, perché comunque non v'è dubbio che le piante, per produrre sostanza secca in forma di fusti, foglie o semi, abbisognano fino a qualche migliaio di litri per ogni chilo. Quindi non si parla, se non in misura minima, di acqua per l'abbeverata o per i vari processi di trasformazione, bensì di acqua necessaria alle piante con cui alimentiamo il bestiame. Precisato questo, è bene ricordare che l'acqua dolce utilizzata nel processo agricolo viene classificata in tre forme: la 'verde' è costituita dalla pioggia che imbeve i suoli e quindi le piante; La 'blu' che scorre in superfice o nel sottosuolo e serve per l'irrigazione o per altri usi; infine la 'grigia' che è quella necessaria per diluire i contaminanti creati dall'uomo. Facile comprendere come i pascoli si avvalgano solo dell'acqua 'verde', derivante dalla pioggia, la quale può essere utilizzata solo dalle piante, altrimenti evaporerebbe tornando semplicemente… nelle nuvole senza aver prodotto nulla. Ovvio che diverso è il caso di insilati-cereali, eventualmente usati per il finissaggio, poiché spesso la loro coltivazione richiede l'irrigazione, ovvero acqua 'blu' che, almeno in teoria, l'uomo potrebbe utilizzare per molti altri scopi. Per certi versi, almeno per la 'verde', è un poco come per gli alimenti, ne servono molti, ma in fondo è un modo per recuperare ciò che andrebbe altrimenti perduto".

Spesso l'acqua piovana che non viene trattenuta dai campi defluisce spontaneamente, talvolta in modo irruente, giungendo infine ai grandi fiumi e poi al mare. Un ritorno spontaneo al grande ciclo globale dell'acqua (Foto: Donatello Sandroni)
L'acqua piovana non utilizzata dalle colture defluisce spontaneamente, talvolta in modo irruente, giungendo infine ai grandi fiumi e poi al mare. Un ritorno spontaneo al grande ciclo globale dell'acqua in cui può benissimo trovare spazio una razionale irrigazione degli appezzamenti
(Fonte: © Donatello Sandroni)

 
Riscaldamento globale e zootecnia. Le emissioni di gas serra dovute all'allevamento di bestiame sono davvero così elevate come si sostiene? Domanda che nasce da un articolo dell'Accademia dei Georgofili che dimostrerebbe il contrario.
"Senza addentrarci in una specifica disamina dell'articolo citato, va detto che indubbiamente quando si parla di emissioni di gas serra per produrre alimenti, sia vegetali sia animali, si fa riferimento al bilancio fra entrate e uscite rispetto all'atmosfera. Ad aumentare le entrate vi sono soprattutto l'impiego di combustibili fossili, la perdita di sostanza organica dei suoli e il fatto che, direttamente come metano e indirettamente come ossido d'azoto delle deiezioni, vengono emessi gas che amplificano l'effetto serra espresso come CO2: circa 30 volte per il metano e circa 300 volte per il protossido d'azoto. Naturale che tutte queste voci siano estremamente variabili in rapporto a molte circostanze, fra cui ricordiamo l'efficienza produttiva e le corrette pratiche di gestione delle colture e degli allevamenti. Con riferimento all'ultimo report Ipcc del 2019 e includendo tutto, ma proprio tutto, gli animali da reddito sarebbero responsabili di 5,1 Gt di CO2 equivalenti, pari quindi al 10% delle emissioni totali. Tuttavia, nei Paesi maggiormente sviluppati – dove le fonti per industria, riscaldamento, trasporti ecc. sono assai rilevanti – tale percentuale si riduce sensibilmente e negli Usa non sarebbe superiore al 3-4%. Soprattutto, secondo recenti valutazioni, l'eliminazione degli allevamenti non consentirebbe un risparmio equivalente, mentre le conseguenze negative per la salute umana sarebbero sensibili. Da non dimenticare poi che gli stessi metano e ossido d'azoto, erano in passato rilasciati, forse in misura superiore, dagli animali selvatici, come per esempio i già citati bisonti in Nord America, i quali tornerebbero in sostituzione di quelli ora allevati (come da noi cervi, caprioli, cinghiali ecc.). Infine interessanti, perché confermano i vantaggi – anche da questo punto di vista – della corretta intensificazione, i conteggi della Capper negli Usa: l'emissione di CO2 per ogni litro di latte era di 3,66 kg nel 1944 e di 1,35 nel 2007".

Una diminuzione impressionante, di quasi due terzi! Ulteriore dimostrazione che le soluzioni vanno cercate nello sviluppo e nelle tecnologie, anziché nelle demagogie. Ma venendo ai consumi di carne nel Mondo occidentale, reputati troppo alti anche dai nutrizionisti, i dati sono affidabili o vi sono parametri che vengono trascurati?
"In effetti, soprattutto in alcuni Paesi più o meno sviluppati, il consumo di carni è da ritenere eccedentario rispetto ai reali fabbisogni per ottimizzare la salute, talvolta col rischio di rendere più probabile l'insorgenza di malattie come cancro ed Mcv, acronimo di malattie cardio-vascolari, specie nel caso delle carni conservate. Peraltro, si assiste spesso a un equivoco: la porzione suggerita dal dietologo fa riferimento all'alimento dopo cottura, mentre i consumi di popolazione vengono in genere calcolati sui pesi delle 'carcasse' all'uscita dai macelli. Queste ancora includono ossa, connettivi vari, parte del grasso che verrà rimosso ecc. Per cui alla bocca del consumatore arriverà il 50-70% di tale ammontare, a seconda delle specie animali, delle modalità di preparazione-cottura delle carni. Secondo una recente elaborazione fatta in Olanda e finalizzata a rendere sostenibile la dieta corretta, il consumo di tutte le carni potrebbe essere dimezzato e diventerebbe pari a circa 100 grammi/giorno che per le statistiche diventerebbero 150-200 grammi, in grado di fornire 18 grammi di proteine le quali, sommate a pesce, latte-derivati e uova, potrebbero raggiungere quei 30-35 grammi/giorno di proteine di origine animale da ritenere soddisfacenti. Ovvero il 40-50% del fabbisogno umano (adulto). Quindi riduciamo pure, ma gli apporti proteici debbono essere questi e ricordiamo che apporti simili, o quasi, sarebbero necessari anche nei Paesi in via di sviluppo dove attualmente sono tre volte meno".

E in tema di sprechi cosa possiamo concludere quindi?
"Nel fare il precedente conteggio, ci siamo imbattuti negli 'scarti', cioè ossa e altri tessuti non utilizzati. Ciò consente di aprire una parentesi su perdite e sprechi del cibo di cui spesso si parla per affermare che rappresentano 1/3 del cibo prodotto e che pertanto basterebbe eliminarli per non essere costretti ad ampliare la produzione che è sempre causa di impatto ambientale. Premesso che scarti e sprechi non sono la stessa cosa, poiché lo scarto riguarda la parte non edibile di un alimento, come le bucce di un'arancia, oppure l'eccesso di grasso di una bistecca, mentre lo spreco è l'avanzo di cibo 'reale' gettato nel cassonetto. Una ulteriore importante distinzione è fra perdite e sprechi: le prime si materializzano soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, dove possono superare il 50%, e sono causati dalla mancanza dei mezzi per difendere le colture o gli animali. Ciò provoca quindi una minor produzione. Ma le perdite possono riguardare anche il prodotto il quale, senza idonei magazzini e/o celle frigorifere, viene falcidiato da insetti, roditori, muffe ecc. Sprechi sono invece tipici dei Paesi ricchi, sono molto meno significativi e riguardano soprattutto la parte non più agricola della filiera, cioè quella che transita dalla distribuzione alla casa. Basta poco per rendersi conto che per entrambe le voci è doveroso ridurle, ma eliminarle è impossibile. Le perdite perché dovute alla mancanza di tecnologie, specialmente nei Paesi in via di sviluppo (e che da noi si vorrebbe abbandonare), oppure legate a fatti ineluttabili come le gelate, i parassiti ecc. Mentre gli sprechi sono largamente connessi a condizioni sociali incontrovertibili, come ad esempio le donne non più casalinghe".

A ciò si aggiunga, restando in tema di perdite e sprechi, che trasportare una merce deperibile dai campi alle tavole implica ormai molti chilometri e molti passaggi di mano, motivo per il quale le attuali filiere agroalimentari devono fare i conti con una quota di dissipazione inevitabile, dovuta semplicemente ai cambi di habitus dell'Uomo negli ultimi decenni, passato da realtà per lo più rurali ad altre di tipo cittadino. Un progressivo squilibrio numerico e geografico fra chi consuma e chi produce che qualche danno non poteva che causarlo già di per sé.

In conclusione, si può affermare che di prodotti di origine animale è bene consumarne lo stretto necessario al mantenimento dei propri fabbisogni fisiologici, che mai andrebbero trascurati, ricordando comunque che gli impatti ambientali degli allevamenti sono in realtà molto diversi da quelli ad essi comunemente addossati. 

Un continuo martellamento di messaggi negativi, talvolta criminalizzanti, diffusi da giornali e trasmissioni televisive di sedicente approfondimento che per alzare il proprio share non esitano a sobillare i cittadini contro chi dà loro cibo, tanto e buono.