Per ogni chilo di carne un allevatore italiano di bovini percepisce meno di tre euro al chilo. Invece la carne prodotta da un allevatore giapponese può valere 300 euro al chilo.
E una volta giunta sul piatto del consumatore può arrivare a cifre ben superiori.

Purché si tratti di carne dei bovini Wagyu, e in particolare della razza Kobe, la più pregiata. Qual è il suo segreto? Una straordinaria ricchezza in grasso che si infiltra fra le fibre muscolari.
Grazie a questo enorme contenuto in grasso questa carne è tenera e succosa.
Le nostre carni hanno preferito, giustamente, ascoltare le richieste del consumatore e dei dietologi e seguendo rigidi, complessi e lunghi programmi di selezione, sono divenute nel tempo più magre e più salutari.
 

Come le oche?

Abbiamo sbagliato tutto? No di certo.
Per ottenere carni come quelle Wagyu si ricorre a bovini geneticamente predisposti ad accumulare grasso, poi alimentati con diete ipercaloriche per favorire l'infiltrazione di grasso fra le fibre muscolari.

Pratiche che ricordano come si otteneva il fegato grasso d'oca, forse più noto con il suo nome originale, "patè de foie gras".
Oche immobilizzate e costrette a ingurgitare quantità enormi di cibo per favorire la degenerazione grassa del fegato (steatosi epatica).
Metodi vietati in molti paesi europei, l'Italia fra questi.
 

L'insegnamento

Dalla carne Wagyu c'è però molto da imparare, a iniziare dal suo "segreto", una precisa identità e una facile riconoscibilità.

Le carni bovine italiane tentano di seguire questa strada e sono accompagnate da un'etichetta dove si indica la provenienza.
Informazioni importanti, ma comunque insufficienti a mettere in evidenza gli sforzi dei tanti allevatori che non si fermano a un prodotto generico, ma sono impegnati nel realizzare carni di eccellenza.
 

I nostri marchi

Si moltiplicano così le iniziative per dare riconoscibilità alle carni che come la Wagyu o la Angus (altra razza bovina di "moda" nella ristorazione) possono offrire grandi soddisfazioni al palato.

Oltre ai marchi Dop, sono numerose le certificazioni volontarie promosse da gruppi di allevatori e dalle loro organizzazioni.
Carni dei bovini piemontesi, di razze italiane come la Chianina, la Romagnola o la Marchigiana.
Altre ancora ottenute con alimentazioni ad hoc e via elencando.
Ognuna con il proprio disciplinare di produzione e un sistema di controllo per verificarne il rispetto.
Per valorizzare le carni italiane e su sollecitazione di alcune organizzazioni degli allevatori, è sceso in campo il ministero per le Politiche agricole, con il progetto "Consorzio Sigillo italiano" che indica le linee guida per produzioni zootecniche di qualità superiore.
 

Scarsi risultati

Eccellenze italiane esistono già senza doversi sforzare a cercarle lontano.
Ma non sempre è facile trovarle. Scarse le informazioni che giungono sino al consumatore e le difficoltà nella distribuzione accentuano il problema.

Occorrerebbero investimenti nella comunicazione che non sono alla portata degli allevatori e delle loro organizzazioni.
Ben vengano dunque marchi e denominazioni per distinguere la carne italiana di alta gamma. Ma i risultati sono destinati ad essere modesti senza adeguate campagne di promozione.