Era il 2004 e in Sardegna, unica regione italiana ancora alle prese con la Peste suina africana, scoppiarono 400 focolai di questa virosi in altrettanti allevamenti.

Fu un'ecatombe. Allevamenti chiusi e 17mila suini abbattuti e distrutti nelle fosse comuni. Si sapeva che sarebbe successo, ma ben poco si fece per evitarlo. Perché questo virus in Sardegna c'era arrivato nel 1978 e da allora non se n'era più andato, nonostante misure di controllo sempre più severe.

Ancora oggi rimangono attive situazioni di rischio, in particolare nella zona centro orientale dell'isola. Un ostacolo alla crescita della suinicoltura in questa regione e un pericolo per tutto il comparto nel resto d'Italia.
 

I perché di un insuccesso

Perché, è lecito chiedersi, nonostante l'impegno senza precedenti delle autorità sanitarie locali e nazionali, ancora non si è riusciti a eradicare il virus della Peste suina africana?

Per rispondere a questa domanda è necessario prendere in esame le caratteristiche di questa infezione e le peculiarità dell'allevamento suino in Sardegna e le sue ataviche e radicate tradizioni.
 

Non ci sono vaccini

Partiamo allora dal virus responsabile della malattia, che appartiene alla famiglia degli Asfaviridae, genere Asfivirus, la cui caratteristica, a differenza di quello della Peste suina classica, è quella di non stimolare la formazione di anticorpi.

La differenza non è di poco conto, visto che parte da questa peculiarità la difficoltà, ancora oggi non superata, di allestire vaccini efficaci. Intanto sgombriamo subito il campo da un possibile equivoco, la Peste, classica o africana che sia, non è trasmissibile all'uomo.
 

Come si diffonde

La diffusione del virus avviene sia per contatto diretto fra gli animali, per via oronasale, dopo il contatto con altri animali infetti o con i loro escrementi. C'è poi una via indiretta, ad esempio con la somministrazione di cibi contaminati, cosa possibile nei piccoli allevamenti famigliari dove si usa utilizzare i residui di cucina (pratica comunque vietata).

Altre forme di contagio indiretto si possono realizzare negli allevamenti allo stato brado, con il contatto con carcasse di animali deceduti in seguito alla malattia. Il virus è infatti dotato di una buona resistenza nell'ambiente esterno, dove può persistere ed essere infettante per oltre tre mesi.
Nei salumi realizzati con carni infette la resistenza del virus è anche superiore, e può raggiungere i sei mesi.

Non dimentichiamoci che resiste anche alle alte temperature, alla putrefazione e al congelamento per lungo tempo.
Gli animali infetti che riescono a superare la malattia possono diffondere il virus per circa 12 mesi e nel loro sangue il virus è rintracciabile anche a distanza di un anno e mezzo.

Alla diffusione del virus possono concorrere alcuni insetti, come le zecche. Le uniche che rappresentano un pericolo appartengono al genere Ornithodoros, per fortuna non presenti in Italia. Non è così per i cinghiali, possibile serbatoio naturale del virus, la cui diffusione è in aumento in molte aree italiane.
 

Come si manifesta

Una volta fatto il suo ingresso nell'organismo animale il virus inizia a moltiplicarsi e a seconda del ceppo si può avere un'ampia varietà di sintomi.

Dopo un periodo di incubazione che varia da pochi giorni a un paio di settimane, si ha in genere un innalzamento evidente della temperatura corporea, che può raggiungere e superare i 40 gradi, sovente accompagnata da una riduzione dell'appetito.

A questi sintomi fanno seguito emorragie diffuse che a livello cutaneo si presentano con arrossamenti in varie regioni, come addome, orecchie, zampe. A volte si hanno emorragie dal naso o dal retto, accompagnate o meno da difficoltà respiratorie e vomito.

La mortalità è elevata e può raggiungere e superare l'80%, sino a comportare la perdita di tutti gli animali colpiti.

Tutti sintomi che tuttavia lasciano solo sospettare la presenza della Peste suina africana, ma che possono essere confusi con altre malattie, sia la “versione” classica della stessa Peste, sia il mal rosso o altre setticemie batteriche.
Una risposta definitiva può arrivare solo dalle analisi di laboratorio, alle quali spetta l'ultima parola in tema di diagnosi. L'importante è ai primi sintomi ipotizzare la presenza del virus e interpellare il proprio veterinario o le autorità sanitarie locali.
 

Allevamenti senza regole

La presenza del virus negli allevamenti suini della Sardegna è poi favorita da alcune tradizioni locali assai radicate fra gli allevatori.
Alla scarsa presenza di allevamenti intensivi, realizzati in ambienti confinati e dove si seguono con attenzione norme di igiene e profilassi, fanno da contraltare un numero rilevante, per quanto indefinibile sfuggendo ad ogni regola e controllo, di allevamenti allo stato brado.

Qui gli animali non sono registrati all'anagrafe zootecnica, non possono essere seguiti dai servizi veterinari (se non con grandi e intuibili difficoltà) e sono in continuo contatto con le popolazioni selvatiche. Preservarli dal virus della Peste suina africana è cosa estremamente difficile, se non impossibile.
 

I piani di lotta

Nonostante le difficoltà, il Piano di eradicazione della Peste suina africana prosegue da anni senza sosta e prevede che la popolazione suina sia sottoposta a controllo sierologico sia presso l'allevamento sia al macello (anche quando avviene in azienda).

In caso di infezione scattano le misure di contenimento che prevedono fra l'altro l'abbattimento e la distruzione degli animali.
Poi il blocco della movimentazione degli animali nelle zone sottoposte a vincolo per evitare la diffusione della malattia. Alle quali fanno seguito altri divieti, come lo stop all'introduzione di animali o l'impedimento alla creazione di nuovi allevamenti.
 

I punti deboli

Misure draconiane, spesso mal sopportate dagli allevatori, sia per i danni diretti sia per la lentezza dei rimborsi, che non sempre coprono tute le spese.
Eppure misure più blande non sarebbero in grado ci contenere il diffondersi del virus ed è di questi giorni una “stretta” in Sardegna alle situazioni di irregolarità degli allevamenti bradi, con l'abbattimento dei suini privi di idonea certificazione.

Certo, si rischia un'ulteriore frattura fra il “sentire” degli allevatori legati alle tradizioni del pascolo e le istituzioni chiamate a fare il loro dovere per sconfiggere la Peste suina africana. Ma atteggiamenti più “blandi” sono perdenti.


Parola d'ordine, collaborazione

Un controllo meno serrato ha infatti dimostrato in tanti anni di insuccessi di essere la strada sbagliata. La fermezza dei controlli deve tuttavia sposarsi con una maggiore apertura alle attese degli allevatori, quelle economiche in primo luogo.

Perché sconfiggere la Peste suina africana richiede una stretta collaborazione fra servizi veterinari e allevatori, grandi o piccoli che siano. Se questa collaborazione manca, la vittoria del virus è assicurata. L'esperienza insegna.