Quella del nocciolo è una coltura che sta attirando l'attenzione di moltissimi agricoltori. I consumi di questo frutto a guscio sono infatti in aumento e le aziende dolciarie del nostro paese sono alla costante ricerca di materia prima di qualità del made in Italy. L'Italia è infatti il secondo importatore di nocciole al mondo dopo la Germania e le nostre industrie registrano un gap costante tra richiesta e offerta pari al 20-30%. Ma l'Italia è anche il secondo produttore, dopo la Turchia (che controlla circa te quarti della produzione mondiale).

Insomma, la corilicoltura italiana ha ampi margini di espansione, ma per essere efficiente e competitiva sui mercati deve affrontare numerose sfide, tra cui quella della produttività. Se infatti tra il 2013 e il 2017 si è registrato un aumento del 12% delle superfici coltivate, la resa ad ettaro media è tutt'altro che ottimale. Ecco perché l'Accademia dei Georgofili ha deciso di organizzare una giornata di studio a Firenze dal titolo: 'Analisi e prospettive della coltivazione del nocciolo in Italia'.
 

Corilicoltura, una questione di filiera

Proprio per strutturare una filiera della nocciola e dare impulso e coordinamento al settore, il Mipaaft ha dato vita nel 2011 al Tavolo di filiera della frutta in guscio (che lavora anche su castagne, mandole, noci e pistacchi). E proprio in rappresentanza del Mipaaft, alla giornata di studio era presente Alberto Manzo, coordinatore del Tavolo di filiera della frutta in guscio. I temi sul tavolo sono diversi, tra cui: migliorare la filiera, dal vivaismo alla trasformazione, promuovere una coltivazione sostenibile, individuare nuove aere ad elevata vocazionalità, migliorare la difesa e prevenire il rischio di arrivo di nuovi insetti e malattie.

Il Mipaaft ha stanziato quasi 2,5 milioni di euro per finanziare tredici progetti di ricerca. Uno dei più importanti è stata la realizzazione di un sistema di certificazione genetico-sanitaria, nazionale e su base volontaria, del materiale di propagazione del nocciolo, che ha visto coinvolti oltre al Mipaaft, Civi-Italia, Ferrero e Ismea. Un accordo che ha permesso di produrre negli anni piantine delle varietà principali certificate come esenti da malattie e virosi.
 

Investire nel nocciolo non è sempre una garanzia

Le coltivazioni di nocciole si stanno espandendo e dalle quatto regioni storiche per questa coltura (Piemonte, Lazio, Campania e Sicilia) se ne stanno aggiungendo altre, come Emilia Romagna, Puglia, Basilicata, Abruzzo e non solo. Rimane tuttavia il tema della vocazionalità delle aree.

Come infatti ricordato da Simone Severini, dell'Università degli studi della Tuscia, ragionare solo in termini di aumento del valore patrimoniale di un fondo garantito dal passaggio da seminativo a corioleto è scorretto. Poiché a determinare il valore sono le rese (in qualità e quantità) e queste variano enormemente sulla base del suolo, del micro-clima e della disponibilità di acqua. Oltre che sulla presenza/assenza di colture alternative, di aiuti legati ai Psr e, nel lungo periodo, nell'andamento dei prezzi. Dai dati presentati nella stessa provincia di Viterbo esistono aree in cui conviene investire in nuovi impianti e aree in cui invece è diseconomico. Insomma, come per tutte le colture anche nel nocciolo bisogna valutare caso per caso se valga la pena investire in un nuovo impianto.
 

Produttività e aeree vocate vanno a braccetto

Un ettaro a nocciolo ha il potenziale di produrre ogni anno intorno a 4 tonnellate di frutti. Ma perché ciò avvenga si devono presentare alcune condizioni: temperatura media annuale tra i 12 e i 16 gradi, temperature invernali basse, ma non al di sotto dei -8 gradi (-1 al germogliamento) e una temperatura estiva non superiore a 35 gradi, per evitare il disseccamento delle foglie. Inoltre le piante devono avere un apporto idrico di circa 800 mm annui, ben distribuiti (in caso contrario è necessaria l'irrigazione), e l'impianto si deve trovare in una zona ventilata (per aiutare l'impollinazione) ma non con venti marini.

L'areale dunque conta, come ha sottolineato Simone Orlandini, dell'Accademia dei Georgofili, che ha incentrato la sua presentazione sul tema della sostenibilità. In altre parole mettere l'impianto nelle migliori condizioni per produrre e in questo modo utilizzare la minor quantità possibile di input.

Orlandini ha poi ricordato come in un'ottica di economia circolare una risorsa importante è rappresentata dai residui di potatura o dai gusci che possono essere riutilizzati in piccoli impianti a biomassa per produrre calore.

Scelte per la sostenibilità ambientale


Chi parte da buone piante è a metà dell'opera

Uno degli elementi cruciali per la produttività di un corioleto è la scelta delle piantine in termini sia di varietà che di portainnesto. La scelta infatti della cultivar deve essere fatta non badando alla disponibilità nei vivai in zona, ma in termini di migliore genetica per quel dato areale. Inoltre, come ricordato da Alberto Manzo, è necessario che le piantine siano certificate per avere la garanzia che vi sia corrispondenza ta la cultivar dichiarata e quella reale e che le piante siano sane.

Moreno Moraldi, consulente nel settore vivaistico, ha ad esempio sottolineato come il metodo di propagazione sia fondamentale per determinare la qualità di una piantina e di come la micropropagazione sia quella che assicura corrispondenza genetica e assenza di malattie. Per ridurre poi i costi di produzione sarebbe buona noma affidarsi a piantine innestate su Corylus colurna, per evitare la formazione di polloni.

In ogni caso la legge prevede che il vivaista consegni insieme alla merce anche il Passaporto delle piante e il Documento di commercializzazione.

Tra i consigli dati da Sergio Tombesi, dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, c'è anche quello relativo all'irrigazione. In passato infatti si riteneva che in questa coltura l'apporto artificiale di acqua non fosse necessario. Invece per assicurare una buona produttività è necessario prevedere un impianto di irrigazione, sospeso o interrato, che bagni almeno il 15% del volume di suolo esplorato dalle radici.


Vecchie e nuove varietà di nocciolo

Nella scelta varietale bisogna prestare attenzione alla destinazione d'uso (industria o consumo diretto), all'areale, alla sensibilità ai patogeni, all'epoca di fioritura (per scegliere l'impollinatore) e alla vigoria della pianta (per determinare il sesto di impianto).

Oggi le varietà coltivate tradizionalmente in Italia sono: Tonda Gentile, Tonda Gentile Romana, Mortarella, San Giovanni, Tonda di Giffoni e Mansa. Ma i ricercatori stanno andando oltre. Daniela Farinelli, dell'Università degli studi di Perugia, ha descritto le caratteristiche della Tonda Francescana, una nuova varietà registrata dall'ateneo umbro di vigoria media, rapida entrata in produzione, elevata produttività (3 tonnellata/ettaro) ed epoca di maturazione precoce. Il frutto è di media pezzatura, con una buona resa dello sgusciato (45-48%) e buona pelabilità, oltre al buon sapore.

Anche l'Università degli studi di Torino ha lavorato al miglioramento genetico del nocciolo e ha iscritto nel Registro varietale del Mipaaft cinque cultivar (Daria, Unito 3L, Unito 119, Unito 101 e Unito G1).
Daria è una pianta con vigoria scarsa, elevata produttività e un'epoca di maturazione medio-precoce (ma sensibile a eriofide). Il frutto è sferoidale, di media pezzatura (2 grammi) con una elevata resa dello sgusciato (50-52%) e una buona pelabilità del seme (70-80%). Le altre cultivar hanno un buon peso del frutto (circa 2 grammi), buona resa dello sgusciato (da 51 a 54%) e buona pelabilità del seme (da 74 a 93%). I test in campo sono stati effettuati solo in Piemonte e andrebbero incrementati e allargati ad altre aere.

Anche negli Stati Uniti, in Turchia e in Cina si stanno portando avanti degli studi di miglioramento genetico i cui frutti potrebbero arrivare anche in Italia, sempre che le cultivar non siano soggette a divieto di importazione come nel caso di quelle statunitensi colpite dall'Eastern filbert blight.
 

Il caldo, vero nemico del nocciolo

Quest'anno gli agricoltori del Sud Italia hanno visto una contrazione delle rese. Come ricordato da Daniela Farinelli, dell'Università degli studi di Perugia, a determinare un calo considerevole delle produzioni sono soprattutto gli stress biotici e abiotici. Nel secondo caso infatti gelate primaverili e caldi intensi estivi possono determinare una diminuzione dei frutti raccolti.

Una via per adattarsi ai cambiamenti climatici è quella di selezionare cultivar maggiormente resistenti, ma i ricercatori dell'ateneo hanno anche provato con successo l'impiego di caolino per ridurre la temperatura fogliare e di inoculo di funghi micorrizici per aiutare le piante a superare gli stress estivi multipli.

A livello fitopatologico invece il problema più rilevante oggi è rappresentato dalla cimice asiatica che soprattutto in Piemonte sta causando danni estesi alle coltivazioni e conto la quale ad oggi esistono ancora poche strategie di difesa (ne abbiamo parlato in questo articolo).


La meccanizzazione del corioleto

Danilo Monarca, dell'Università degli studi della Tuscia, ha invece affrontato il tema della meccanizzazione della coltura, un aspetto fondamentale se si vuole garantire il reddito dell'impianto. Le attività che assorbono il maggiore quantitativo di ore lavorate sono la potatura, la spollonatura, la lavorazione del terreno o lo sfalcio dell'erba e ovviamente la raccolta.

Tutte attività che possono essere meccanizzate. In particolare la raccolta può essere agevolata da aspiratrici trainate, raccoglitrici portate e raccoglitrici semoventi. Dove le prime sono indicate per aziende fino a 10 ettari, le seconde tra 10 e 13 ettari e le ultime per superfici più ampie. Nelle zone vocate a questa coltura le aziende che producono e personalizzano le macchine sono molte. In ogni caso è preferibile utilizzare macchine dotate di cabina per proteggesi dalle polveri sollevate durante la raccolta.