Fernando Di Chio è un agronomo che opera soprattutto nella provincia di Foggia, ma vanta una lunga esperienza nel settore della cerealicoltura e della pasta. Ha seguito le varie fasi che si sono succedute negli ultimi decenni in tema di tecnica, mercati, sussidi e qualità dei prodotti.
AgroNotizie lo ha intervistato per cogliere il suo punto di vista sull’annoso tema dei grani italiani e stranieri, delle buone pratiche di coltivazione e delle derive allarmiste che stanno caratterizzando la comunicazione su tali temi negli ultimi mesi.
 
Lamentele e polemiche tante, in tema di grano e pasta. Come stanno davvero le cose?
Quando andavo a scuola, ricordo che ogni volta che un’interrogazione andava male davo la colpa ai professori. Era il modo migliore per giustificare la mia impreparazione e mi evitava a volte il rimprovero dei genitori. Bene, alla luce di quello che leggo sul frumento duro sui social, mi sembra di rivedere lo stesso atteggiamento in molti agricoltori e in certe persone che con l’agricoltura hanno ben poco da spartire. Dico questo perché avendo ormai superato i 50 anni ed essendo figlio di cerealicoltore, nonché agronomo, da un po' di anni mi occupo di grano e quindi posso dire di avere un po' di esperienza in quella che è stata l’evoluzione della cerealicoltura”.

E dalla memoria storica del settore cosa se ne può ricavare?
Rammento gli anni ‘80 in cui il grano veniva pagato intorno alle 10-15 mila lire (7-8 euro per intenderci), ma non ricordo lamentele, o rivolte di piazza. Anzi, il mercato immobiliare dei terreni era alle stelle e molti erano quelli che investivano in terreni piuttosto che in appartamenti, dato che come integrazione al reddito la Comunità Europea garantiva un milione di lire a ettaro, pari circa a 500 euro attuali, ma con maggior valore d’acquisto. All’epoca rammento che molti seminavano senza preoccuparsi di concimare, diserbare e i trattamenti fungicidi erano un’utopia. Erano gli agricoltori del weekend, così li chiamavo, perché erano tante le persone che investivano nell’acquisto di terreni, gente che tutto era tranne che agricoltore”.

E quelli erano gli anni della spensieratezza e del mini boom. E oggi?
Facciamo un salto temporale e arriviamo a metà del Duemila. L’integrazione al reddito ha subito una forte riduzione, con il prezzo del grano che ha subito forti sbalzi che lo hanno portato, in un anno in particolare, a raggiungere i 50 euro (ex 100mila lire), salvo poi scendere a 12 euro (ex 24mila lire). Quindi, da un lato la riduzione dell’integrazione al reddito, dall’altro le forti oscillazioni del prezzo, iniziarono a creare forti malcontenti.
Le associazioni di categoria, per cercare di placare gli umori, iniziarono a dire che l’agricoltore era schiavo delle multinazionali, come accade oggi con la polemica sul glifosate, per intenderci, ma anche che lo costringevano a seminare solo grano certificato, ossia seme selezionato che chiaramente aveva un costo più alto. Quindi, per la gioia di molti, tranne dei costitutori e dei genetisti italiani, si è deciso di non rendere più obbligatorio l’uso di semente selezionata, lasciando all’agricoltore la possibilità di riseminare ciò che aveva prodotto, il tutto in barba ad una legge sementiera che è ancora in vigore e che regola la vendita del seme, quindi una contraddizione di fondo. Ma questa è un’altra storia che richiederebbe troppo tempo per essere sviscerata adeguatamente
”.

Restando allora sul pezzo, ovvero il grano, cosa è successo in sintesi alla cerealicoltura italiana?
Riassumendo, sono occorse riduzioni degli aiuti, con un prezzo del grano maggiormente attenzionato da parte degli agricoltori che non avevano più un cospicuo aiuto al reddito. Più due colpi seri alla qualità e alla quantità finale dei raccolti, ovvero la scomparsa dell’obbligo dell’uso del grano certificato e la riduzione della ricerca su nuove genetiche, la quale è in parte finanziata proprio dalla vendita del seme certificato. Tutto ciò ha comportato un forte disamoramento della coltivazione da parte di molti agricoltori o meglio, mi si consenta di dire, di quelli che non avendo nulla a che vedere con l’agricoltura avevano investito in terreni soprattutto per ottenere l’aiuto comunitario. Gli agricoltori del weekend, appunto”.

Forse è però mancata anche una corretta informazione e divulgazione tecnica?
Rammento di quegli anni un episodio che mi pare calzante: partecipai come relatore a un convegno in cui mi si chiese di parlare dell’importanza della concimazione del frumento. Era la prima volta che relazionavo in pubblico e cercai il modo migliore per rendere interessante il mio intervento, così impostai il tutto su un confronto tra due aziende che seguivo come tecnico: una, a causa del malcontento, aveva ridotto i costi al lumicino, ossia poco concime, diserbo essenziale e nessun trattamento fungicida. L’altra invece che imperterrita voleva continuare a produrre grano di qualità e in quantità e non lesinava sui mezzi tecnici. Morale: l’azienda che aveva puntato sulla riduzione dei costi aveva una spesa media di 500 euro ad ettaro, l’altra che invece non lesinava su concimi e trattamenti fungicidi si attestava su 900 euro ad ettaro. Quello che si rilevava era però un dato essenziale: l’azienda che aveva lesinato sui mezzi tecnici, con un costo ad ettaro di 500 euro, produceva in media 25 quintali, che con un grano pagato a 50 euro il quintale forniva un reddito al netto delle spese di 750 euro. Al contrario, l’azienda che non aveva lesinato, sostenendo una spesa di 900 euro ad ettaro, produceva in media 50 quintali e aveva un reddito netto da spese di 1.600 euro. In entrambi i casi si aveva un guadagno, anche se differente, ma le stesse aziende, vendendo il grano a 20 euro, una situazione simile all’attuale, otterrebbero un reddito rispettivamente di zero euro nel primo caso e 100 euro nel secondo.
Come si nota quindi, escludendo calamità naturali come siccità, grandine o nubifragi, l’agricoltura ripaga solo chi è più attento, punendo invece chi s’improvvisa agricoltore e pensa che produrre grano sia solo buttar seme nel terreno e aspettare che maturi
”.

Quindi pare che alla fine mal voluto non sia mai troppo. E la filiera nel suo insieme come sta?
Alla luce di quanto esposto, mi vengono alcune considerazioni sullo stato attuale in cui versa la filiera cerealicola. In primis, lo stato di malcontento mi pare appunto quello di un figlio unico viziato, i cui genitori per sopravvenuti problemi economici negano oggi il superfluo cui lo avevano abituato. Tradotto: sono crollati i cospicui sussidi da parte dell’Unione europea.
La filiera indica però un insieme di protagonisti che concorrono tutti all’ottenimento del massimo risultato, quindi creare attriti tra agricoltori, stoccatori e pastifici non fa altro che danneggiare tutti senza con questo ottenere alcun beneficio per alcuno. Per migliorare la qualità delle produzioni italiane, molti pastifici hanno iniziato a creare dei contratti di filiera in cui è garantito un prezzo minimo sempre superiore a quello di mercato. Ma il contratto di filiera, come è giusto che sia, pone delle regole da rispettare. A quanto pare però, da buoni italiani, se ci impongono regole non siamo d’accordo e cerchiamo subito un motivo per non adeguarci.
In pratica, tornando all’esempio iniziale, chi oggi sta attuando questa politica del terrore su grano e pasta, glifosate, micotossine, celiachia e cose simili, è più o meno come il cattivo alunno che non volendo studiare convince l’intera classe a disertare le lezioni e li convince che i docenti non sono preparati
”.

Per non parlare appunto sulla guerra al grano estero, quello senza il quale mancherebbe oltre un terzo delle materie prime per produrre la tanto amata pasta…
Il problema del grano estero e di tutto quello che comporta, è solo figlio di un malcontento da parte di chi, non essendo in grado di produrre qualità, giustifica tutto sostenendo che la pasta si può fare anche senza proteine, oppure che i concimi inquinano e che i trattamenti fungicidi sono un modo per rendere schiavi gli agricoltori delle multinazionali chimiche. Tutte affermazioni che mi ricordano appunto quando prendendo un brutto voto mi rifugiavo nella scusa del professore che non mi capiva”.
 
Qual è quindi la morale che si può trarre da questa faccenda?
La morale è che allo stato attuale chi sta pagando il prezzo più alto sono tutti i protagonisti della filiera: gli agricoltori si sentono sfruttati, i pastifici vedono ridursi le vendite, il consumatore è spaesato e si chiede dove sia la verità e in tutto questo caos, c’è chi cerca momenti di notorietà cavalcando il malcontento.
Al solito l’agricoltura è in bocca a tutti, oggi sono tutti scienziati, tutti esperti di glifosate, o meglio glifosato per gli italiani. Tutti pronti a parlare spesso a sproposito di Don, che per molti era solo un titolo da dare a gente di rispetto. Infine ci sono i tecnici, gli unici che avrebbero diritto di parlare, ma che vengono additati come schiavi delle multinazionali, del sistema e di chi ci vuole avvelenare. Praticamente per tornare al concetto iniziale, ciò che sta accadendo alla cerealicoltura italiana è appunto paragonabile a quello che si faceva a scuola quando un professore era troppo severo e l’intera classe lo additava come l’unica causa della loro impreparazione. Mentre i pochi alunni davvero preparati erano additati come secchioni, amici dei professori
”.

Una morale, quella di Di Chio, che purtroppo emerge su più fronti quando si parli di materie tecniche o scientifiche. E finché la stampa italiana, televisiva, radiofonica e stampata, continuerà a comportarsi come un megafono di ogni istanza ipocondriaca sui residui, sul glutine, sul glifosate, il cittadino medio continuerà a sentirsi vittima di ogni macchinazione possibile ai danni della sua salute, quando invece sarebbe bene che imparasse che spesso è al suo portafoglio cui puntano i molti mariuoli della disinformazione.