I concimi azotati e l'urea in particolare sono al centro di quella che sembra proprio una tempesta perfetta. Da un lato infatti l'Unione Europea ha deciso di imporre nuovi dazi alle importazioni di fertilizzanti da Russia e Bielorussia, come ritorsione per l'invasione dell'Ucraina. Dall'altro, il Governo italiano, per cercare di migliorare la qualità dell'aria in Pianura padana, sta valutando di introdurre un divieto di utilizzo dell'urea nel Nord Italia a partire dal 2027.

 

Ma a far emergere la cattiva fama dei fertilizzanti azotati in quel di Bruxelles ci ha pensato anche un documento dell'European Science Advisory Board on Climate Change (Esabcc), un organo consultivo della Commissione Ue che ad inizio anno ha suggerito come sia necessario introdurre un sistema di tassazione sulle emissioni di gas climalteranti in agricoltura, puntando il dito contro i fertilizzanti azotati e gli allevamenti, soprattutto bovini.

 

Dazi alle stelle: l'urea nel mirino dell'Ue

A fine maggio il Parlamento Europeo ha approvato a larga maggioranza (quattrocentoundici voti favorevoli, cento contrari e settantotto astensioni) un nuovo regolamento che prevede l'imposizione di dazi progressivi su una serie di prodotti agricoli e fertilizzanti importati da Russia e Bielorussia. Tra questi, proprio l'urea, una delle fonti di azoto più diffuse e impiegate in agricoltura.

 

Secondo quanto stabilito, i nuovi dazi introdurranno inizialmente un'aliquota del 6,5% sulle importazioni, a cui si aggiungeranno tariffe specifiche comprese tra 40 e 45 euro a tonnellata per il biennio 2025-2026. Il prelievo salirà progressivamente fino a raggiungere i 430 euro per tonnellata entro il 2028. L'obiettivo dichiarato è duplice: da un lato ridurre la dipendenza economica dell'Ue da Paesi considerati ostili, dall'altro incentivare la produzione interna di fertilizzanti, oggi penalizzata dalla concorrenza di prodotti a basso costo d'importazione.

 

Tuttavia, questa misura rischia di avere un effetto immediato sui costi di produzione delle aziende agricole europee. Senza una strategia parallela per ampliare l'offerta interna o facilitare l'accesso a fonti alternative, gli agricoltori rischiano di trovarsi a pagare molto di più per un input produttivo essenziale, con inevitabili ripercussioni sulla redditività delle colture.

 

A complicare ancora di più il quadro c'è il Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam), che prevede ulteriori dazi (anche se tecnicamente non sono tali) per quei fertilizzanti prodotti in Paesi che utilizzano tecnologie di produzione poco rispettose dell'ambiente, come ad esempio la Russia, la Bielorussia e tutti i Paesi del Nord Africa. Anche in questo caso, il Cbam promette di far lievitare i costi dei fertilizzanti azotati.

 

Verso lo stop all'urea nel Nord Italia

Come se non bastasse, una seconda tegola si abbatte sul comparto: il Piano Nazionale per il Miglioramento della Qualità dell'Aria, in fase di elaborazione da parte del Ministero dell'Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste e del Ministero dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica, prevede il divieto assoluto di impiego dell'urea nel Bacino padano a partire dal primo gennaio 2027. Una misura motivata dalla necessità di ridurre le emissioni di ammoniaca e ossidi di azoto, principali responsabili della formazione di polveri sottili (PM10).

 

Secondo Confagricoltura, però, questa scelta rischia di essere insostenibile per le imprese agricole. "Senza una fase transitoria concreta e senza alternative tecniche efficaci disponibili sul mercato - si legge in una nota - il divieto di utilizzo dell'urea rappresenta un ostacolo operativo ed economico enorme". Anche perché l'urea rappresenta circa il 12% dei concimi azotati usati in Italia, con un costo stimato per la sua sostituzione che potrebbe arrivare a 150 euro per ettaro.

 

L'Esabcc: meno azoto, più tasse?

Nel frattempo a Bruxelles si guarda anche oltre i dazi e le restrizioni: si discute dell'introduzione di un sistema di tassazione delle emissioni legate all'uso del suolo, agricoltura inclusa. A sollevare il tema è stato l'Esabcc, il Comitato Scientifico Consultivo Europeo sui Cambiamenti Climatici, che in due rapporti consecutivi ha suggerito la possibilità di attribuire un prezzo alle emissioni derivanti da fertilizzanti e attività zootecniche.

 

Il concetto è semplice sulla carta: chi più inquina, più paga. Ma nella pratica, applicare un carbon pricing all'agricoltura si rivela complesso. Il commissario europeo all'Agricoltura, Christophe Hansen, si è detto scettico: un sistema di tassazione agricola aumenterebbe il carico amministrativo e burocratico sulle imprese, in contrasto con gli obiettivi della Commissione di semplificare le normative.

 

L'idea più accreditata, almeno nel breve periodo, sembra quindi quella di puntare su strumenti volontari di premialità, come il carbon farming e i nature credit, con meccanismi di certificazione che dovrebbero entrare in vigore entro fine 2025.

 

Costi in salita, prospettive incerte

Il comparto agricolo europeo si trova oggi stretto in una morsa di costi crescenti, incertezze normative e pressioni ambientali. Da una parte l'aumento del prezzo dell'urea, trainato da dinamiche geopolitiche e scelte di politica commerciale, dall'altra le restrizioni ambientali e le proposte fiscali sui gas climalteranti. A tutto ciò si aggiunge un contesto di mercato non favorevole, con i prezzi di molte derrate (in primis il frumento) in calo, schiacciati da un eccesso di offerta globale.

 

Senza una visione organica che accompagni il settore in una vera transizione ecologica, il rischio è che gli agricoltori si trovino a dover affrontare sacrifici sproporzionati senza le necessarie contropartite. Una transizione che deve essere graduale, realistica e sostenuta da misure di accompagnamento concrete, dalla ricerca all'innovazione, passando per il supporto economico. Altrimenti, la sostenibilità rischia di restare un ideale, mentre nei campi cresce solo l'incertezza.