L'Italia è, insieme alla Francia, il principale produttore di vino a livello globale e le esportazioni rappresentano una voce importante della bilancia commerciale. Tuttavia la viticoltura sta vivendo un momento di transizione che vede al centro la sostenibilità delle produzioni.

Sempre più spesso si legge di proteste di residenti che manifestano contro i viticoltori che applicano prodotti fitosanitari. Al contempo i consumatori chiedono con sempre maggiore insistenza vino "a residuo zero". E anche l'Unione europea spinge verso una riduzione dell'uso dei prodotti fitosanitari e ha già messo fuori gioco un gran numero di sostanze attive.

I viticoltori si trovano così davanti alla sfida di produrre uva sana e in quantità dovendo far ricorso ad un numero minore di trattamenti e di sostanze attive ammesse. Se da un lato si sta lavorando sullo sviluppo di agrofarmaci di origine biologica e strumenti digitali a supporto delle decisioni, una strada percorribile per aumentare la sostenibilità è quella della resistenza genetica delle viti ai funghi, in particolare a oidio e peronospora.


I vitigni resistenti a peronospora e oidio

Quando Plasmopara viticola e Uncinula necator arrivarono in Europa nell'Ottocento i viticoltori del tempo provarono a combatterli incrociando la vite europea (Vitis vinifera) con vitigni selvatici (come Vitis rupestris) resistenti ai funghi. Ottennero così vitigni che non si ammalavano, ma erano scarsamente interessanti sotto il profilo organolettico.

La difesa fungina fu allora affidata alla chimica, con la messa a punto della famosa poltiglia bordolese. Le operazioni di breeding tuttavia proseguirono e oggi sono disponibili molti vitigni che coniugano la resistenza fungina della vite selvatica ad un ottimo profilo organolettico.

Il viticoltore che volesse utilizzare queste viti oggi ha un'ampia scelta di varietà tra cui scegliere. Ci sono infatti le viti Piwi, "pronipoti" degli incroci iniziati nell'Ottocento, ma anche i Vivai Cooperativi Rauscedo, insieme all'Università di Udine, hanno messo a catalogo alcuni vitigni propri. Mentre ultimamente la Fondazione Edmund Mach ha proposto quattro suoi vitigni.


Viti Piwi

Pronipoti dei vitigni selezionati nell'Ottocento sono le viti Pilzwiderstandfähig, o comunemente chiamate Piwi. Si tratta di vitigni con una lunga tradizione e attualmente coltivati soprattutto in Germania, Svizzera, Austria e Ungheria. Sono presenti però anche in Trentino Alto Adige e in Veneto.

In questo articolo abbiamo parlato approfonditamente di questi vitigni, intervistando anche un produttore, e per chi fosse interessato è disponibile sul sito Piwi International la lista dei vitigni disponibili e le caratteristiche di ognuno. Sono vitigni iscritti nel registro nazionale, ma non tutte le regioni hanno autorizzato l'impianto, soprattutto a causa del basso interesse da parte dei viticoltori.


Viti Rauscedo-Università di Udine

L'Università di Udine, insieme ai Vivai Cooperativi Rauscedo, una realtà produttiva del Paese, ha avviato un programma di breeding incrociando vitigni internazionali quali Merlot e Chardonnay con viti resistenti di Vitis rupestris. Dopo un processo di selezione durato quasi venti anni sono stati selezionati dieci vitigni resistenti che offrono un profilo organolettico soddisfacente e resistenza a peronospora e oidio.

In questo articolo abbiamo intervistato Eugenio Sartori, direttore generale dei Vivai Cooperativi Rauscedo, che illustra il processo di selezione, mentre in questo articolo abbiamo fatto un resoconto di uno dei primi assaggi di vino prodotto con le nuove varietà di vite.

Attualmente sono dieci le varietà (cinque a bacca bianca e cinque a bacca rossa) iscritte al catalogo nazionale e già coltivabili in Friuli, Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna, Abruzzo, nonché molto richieste all'estero. Mentre altre quattro sono state registrate a fine 2020 e per ora sono utilizzabili sono in Friuli (e a breve in Veneto).


Vitigni Fem-Civit

Anche la Fondazione Edmund Mach, insieme al Consorzio innovazione vite, ha selezionato e testato sul territorio provinciale vitigni resistenti per individuare quelli che meglio si adattano all'areale e si inseriscono nella tradizione vitivinicola locale.
 
Proprio lo scorso marzo si è tenuto un evento a San Michele all'Adige in cui sono state presentate quattro varietà (due a bacca rossa e due a bacca bianca) provenienti dalle attività di breeding della fondazione. Varietà già iscritte nel Registro nazionale e disponibili alla coltivazione in regione.
 


Sul tema della resistenza sta lavorando anche il Crea viticoltura ed enologia che a Conegliano sta provando a rendere resistente la Glera, il vitigno che è alla base della produzione del Prosecco. Ma ha avviato sperimentazioni anche in varie regioni (Toscana, Lazio, Puglia e presto in Piemonte) cercando di rendere resistenti vitigni autoctoni.

Ad oggi tuttavia non ci sono ancora vitigni registrati. Se tutto andrà per il verso gusto nel giro di sei-sette anni tuttavia ci potrebbero essere le prime registrazioni.


Vitigni resistenti, come e perché

I vitigni resistenti ,ottenuti con le tecniche di breeding tradizionali, non aspirano a rimpiazzare i vitigni storici su cui si fonda la viticoltura italiana. Sono pensati invece per essere impiegati in quelle aree sensibili, vicino ai centri abitati, dove le attività delle irroratrici hanno un impatto sociale negativo. Oppure in quelle zone collinari e montane dove a causa della pendenza l'uso dei trattori è impossibile e i trattamenti vengono effettuati con attrezzature a spalla.

Situazione diametralmente opposta potrebbe invece riguardare l'inserimento di specifici geni di resistenza nei vitigni della tradizione (Sangiovese, Nebbiolo, Glera, Primitivo, etc.). In questi casi si mantengono inalterati i caratteri distintivi del vitigno e ci si limita a renderlo resistente ai funghi grazie all'impiego delle Tea, le Tecnologie di evoluzione assistita (per ora parzialmente regolate a livello europeo).
 
Ma quanto sono resistenti i vitigni ottenuti tramite incrocio? Non si tratta di una immunità, nel senso che l'infezione da parte del fungo avviene, tuttavia non compromette la sanità delle uve o la capacità fotosintetica delle foglie. La pianta è infatti in grado di ostacolare il diffondersi del fungo che può insediarsi nei tessuti ma non è in grado di espandersi e di riprodursi.

Tuttavia per evitare fenomeni di resistenza e mantenere basso l'inoculo di campo si consiglia di effettuare due-tre trattamenti l'anno con prodotti fungicidi, anche solo a base di rame. In questo modo da un lato si preservano ulteriormente le piante, dall'altro diminuisce la possibilità che si selezionino ceppi di peronospora ed oidio in grado di superare le resistenze genetiche delle piante.

Eventualità che in ogni caso è possibile. Per questa ragione i breeder oggi cercano di selezionare piante che abbiano più di un gene di resistenza. In questo modo si riduce la possibilità che vitigni oggi resistenti in futuro possano diventare suscettibili.

C'è infine un ostacolo di carattere normativo e culturale alla diffusione dei vitigni resistenti. Perché un viticoltore possa coltivare queste viti occorre che siano registrate nel catalogo nazionale e che il loro impianto sia autorizzato regione per regione. Processo che allunga di molto i tempi di diffusione. Inoltre essendo genotipi che non sono 100% Vitis vinifera il loro uso non è consentito nei vini Doc e Docg. Sono perciò utilizzabili solo per i vini da tavola o Igt.

Dal punto di vista culturale invece si nota una certa diffidenza verso questo tipo di vitigni, considerati estranei alla tradizione vitivinicola italiana. Tuttavia il loro uso in specifiche circostanze potrebbe davvero contribuire a rendere la viticoltura più sostenibile sia sotto il profilo ambientale e sociale, poiché richiede l'uso di meno agrofarmaci, che economico, poiché abbatte il numero di trattamenti all'anno.