Per stare in salute, o avere più probabilità di rimanerci a lungo, bastano poche e semplici regole:
  • vita attiva anziché sedentaria;
  • niente fumo;
  • poco alcol (meno è meglio è);
  • calorie commisurate al bisogno;
  • peso corporeo adeguato per età, morfologia e sesso;
  • moderazione nel sale;
  • moderazione nei grassi, specialmente se saturi;
  • moderazione negli zuccheri semplici;
  • tanta verdura e frutta;
  • diversificare il più possibile la propria alimentazione.

Facile no? Se tutti seguissimo tali indicazioni crollerebbero i fattori di rischio oncologici, cardiocircolatori ed endocrini. Cioè quelli che oggi accorciano sensibilmente le aspettative di vita del ricco mondo occidentale.

Peccato che nessuno guadagni un biccio da questo elenco di banale buon senso, ormai caldeggiato da decenni dalla comunità scientifica internazionale. Quella seria, per lo meno. Ovvero quella che non si trastulla con bollini, semafori e liste di proscrizione in base a particolari sostanze o ingredienti descritti come mostri o veleni quando mostri o veleni non sono affatto. Fuori dai confini della scienza della nutrizione e dalla tossicologia, infatti, inizia il business dell'allarmismo, al centro del quale non potevano ovviamente non cadere gli odiati "pesticidi".
 

Per chi ha fretta

Liste, semafori e bollini di supposta qualità nulla apportano in termini di sicurezza alimentare, dal momento che suddividono i prodotti in base a criteri avulsi da qualsivoglia valutazione scientifica dell'esposizione e quindi dei rischi.
 
  • Fatuo e fuorviante, catalogare i differenti prodotti in base alla mera percentuale di ritrovamento di sostanze attive.
  • Dannoso, indurre i cittadini a spostare le proprie abitudini alimentari, impoverendo in tal modo le tavole di prodotti assolutamente utili in base a classificazioni assolutamente inutili.
  • Svilente, nei confronti delle Autorità competenti nazionali ed europee, le quali dimostrano invece l'assoluta sicurezza degli alimenti a nostra disposizione.
  • Scorretto dal punto di vista commerciale, premiare o penalizzare l'immagine di prodotti fra loro del tutto identici dal punto di vista della sicurezza.
  • Deprecabile, manipolare l'opinione pubblica al fine di ricavarne potere mediatico ed economico.
  • Anti scientifico, bollare "gli agrofarmaci" come "interferenti endocrini" a prescindere.
  • Necessario, per l'agroalimentare italiano, moltiplicare gli sforzi in comunicazione, anche a livello politico e normativo, al fine di contrastare tali derive disinformative.
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Per chi vuole approfondire

Si stanno recentemente diffondendo liste di alimenti da scegliere o da scartare in funzione della percentuale di ritrovamento di residui sul totale dei campioni analizzati. Un criterio, quello della percentuale, privo di alcun fondamento razionale, ovviamente, ma che colpisce pesantemente un'opinione pubblica sempre più nelle mani dei molteplici ciarlatani che lucrano sull'ignoranza dei cittadini.
Ignoranza da intendersi in senso stretto: ovvero non essere competenti delle materie sulle quali si vorrebbe invece discutere.

Una combo micidiale, perché non c'è niente di più pericoloso di un cittadino che nulla sappia di agricoltura, di tossicologia, di ambiente e di dinamiche agroalimentari globali, ma che pretenda di "informarsi" in nome di un'illusoria maggior consapevolezza negli acquisti. Peccato che a informarsi vada poi su pagine e media che tutto fanno, tranne che informarlo. Anzi.
 

Residui: il nulla con l'allarmismo intorno

Le fallacie dell'approccio metodologico utilizzato sono molteplici, a partire appunto dalla percentuale di campioni positivi ai controlli: un dato a esser buoni inutile. Apporre un "bollino rosso" a dei prodotti in funzione delle percentuali di ritrovamento di residui è infatti esercizio sterile e fuorviante. In primis poiché la salute dei cittadini viene già preservata a monte attraverso specifiche valutazioni dei rischi, sia molecola per molecola, sia in caso di compresenza di più sostanze attive.

Tali valutazioni sono infatti sviluppate ipotizzando un'esposizione a vita, a fronte di una presenza del 100% su un determinato tipo di alimento per una determinata molecola ai suoi limiti superiori di Legge. A queste seguono altre valutazioni sull'esposizione multipla alle diverse sostanze attive. E al momento le autorità preposte alla valutazione dei rischi dicono che no, non ce ne sono. Detta in altri termini, il famigerato "effetto cocktail" resta ancora una mera illazione ben lungi dall'essere corroborata da prove scientifiche.

Ecco perché allarmare i cittadini, magari "avvertendoli" che i ribes tedeschi hanno il 90% dei campioni con residui, nulla vuol dire per la loro salute. Se quei residui sono a norma (e a volte perfino quando non lo sono), quegli alimenti vanno considerati del tutto sicuri, indipendentemente da dove vengano e dalla percentuale di rinvenimento. Lo stesso vale per il prezzemolo polacco (positivo nel 62% dei casi) o per le albicocche greche (con residui per il 63%) e per tutti gli altri prodotti messi inutilmente alla gogna.
 

Assenza di dettaglio

Nei report diffusi compulsivamente sui social, talvolta letteralmente spammati, nulla viene detto sulla tipologia delle molecole, né delle loro concentrazioni. Tanto meno viene spiegato che in un anno un cittadino medio può ingerire forse forse una cinquantina di milligrammi di residui, pari a quanto ingerisce di tossine naturali (queste sì nocive) chi si beve 4-5 caffè al giorno. Tradotto: le percentuali non ammazzano nessuno, la disinformazione sì. E la vittima di tale killeraggio è sempre l'agricoltura.
 

Ribaltamento dei concetti

Convogliare l'attenzione dei consumatori sulla percentuale di campioni con residui, quasi il 50%, appare esercizio speculativo alquanto deprecabile. Anche nell'esposizione dei numeri si può infatti evincere il grado di onestà intellettuale di chi li diffonde. Puntare il dito sulla percentuale con presenza trasferisce comprensibile ansia, dal momento che il consumatore lo interpreterà come "contaminato", quindi pericoloso. In sostanza, la metà di ciò che compra gli apparirà pericolosa, rendendolo di fatto vittima dei relativi bollini e semafori creati appunto per influenzarne le scelte.

Di fatto, il dato da comunicare sarebbe 99,2%, ovvero quello dei campioni da considerare sicuri in quanto caratterizzati da profili residuali che spaziano dallo zero (analitico: mi raccomando) al limite stabilito dalle normative. Ovvio che così facendo il gioco al massacro si sgonfierebbe velocemente, permettendo alla popolazione di comprendere che quello che mette nel carrello della spesa è tutto sicuro, indipendentemente da cosa sia, da chi lo abbia prodotto e da dove provenga. E in tal modo addio ai bollini, ai semafori e ai business ad essi collegati.
 

Esposizione: illustre sconosciuta

Foss'anche che il 100% di un tipo di frutta, che so, i lamponi del Vattelapeskistan, contenesse residui, quanti mai se ne ingerirebbe? Perché si può risultare positivi per milligrammi, microgrammi o addirittura nanogrammi. Fatto salvo il rispetto degli Lmr (anche fossero tutti milligrammi nulla vorrebbe dire tale dato), sarebbe bene fare qualche conto anche sul contributo complessivo alla dieta di quel tipo di frutti. Nell'esempio sopra citato, quanti residui si possono assorbire in un anno, visto che i lamponi tutto sono tranne che la base dell'alimentazione umana? Risposta: il nulla, praticamente.

Gli americani, tanto per citare un dato, hanno consumato nel 2019 circa 107mila tonnellate di lamponi, ma sono anche più di 300 milioni come popolazione. In sostanza, ogni americano ha ingerito circa 350 grammi di lamponi. Anche fossero stati tutti importati dal Vattelapeskistan, e per quanti residui ci fossero sopra, l'introito complessivo annuo sarebbe prossimo allo zero. Quindi, che senso ha criminalizzare i lamponi del ridente Paese immaginario, soltanto perché la percentuale di ritrovamento è alta? Risposta: non ne ha alcuno. E tale ragionamento vale per qualsiasi altro prodotto. Altrimenti, si finirebbe col mangiare solo patate, visto che a quanto pare queste sono rinvenute raramente positive ai residui. Tradotto: a dare retta a bollini e semafori si rischia solo di diventare ortoressici, ovvero degli ossessivi maniacali per i cibi (supposti) sani.
 

Interferenti sì, ma dell'informazione

Così come l'allarmismo ha cavalcato per decenni l'equivalenza pesticidi = cancro, ora sta ritentando il gioco con l'equivalenza pesticidi=interferenti endocrini. Di fatto, tanto era ed è falsa l'equivalenza relativa ai tumori, tanto è falsa quella verso gli interferenti endocrini. Un conto è una frase "H", ex frasi "R", apposta su un'etichetta, un altro è l'effettiva potenzialità di produrre quell'effetto sui cittadini una volta che quel prodotto sia stato usato sulle colture. E questa potenzialità, nel mondo reale, non viene raggiunta se non a fronte di specifici comportamenti auto lesionisti che alcuni agricoltori mostrano quando manipolano o applicano i prodotti fitosanitari. Ma lì non c'entra la tossicologia, bensì il banale buon senso.

Insensata e disastrosa quindi una classificazione dei prodotti fitosanitari in base ai criteri in-out anche sul tema interferenza, specialmente se operato tramite valutazioni del "pericolo" anziché del "rischio". Anche perché un'alterazione dei livelli ormonali nel corpo umano non implica necessariamente un danno alla salute. Anche piccole quantità di zucchero causano un innalzamento dell'insulina, così come ingerire acqua induce la risposta della vasopressina, delegata alla regolazione della quantità di acqua riassorbita dai reni. Classificare zucchero e acqua come interferenti endocrini apparirebbe però alquanto sciocco anche agli occhi di un profano. Senza contare che l'interferente endocrino più potente cui si espone un essere umano è la pillola anticoncezionale, tanto efficace da bloccare i cicli riproduttivi naturali femminili.

A titolo di esempio, una comune pillola anticoncezionale di ultima generazione contiene 0,02 milligrammi di etinilestradiolo (estrogeno di sintesi) e 3 milligrammi di drospirenone (farmaco progestinico). Un totale di 3,02 milligrammi assunti ogni giorno, in ragione di oltre 820 milligrammi all'anno, per anni. Nonostante ciò - e nonostante la vistosa "interferenza endocrina" da essi mostrata - tali farmaci sono considerati sicuri in base a valutazioni epidemiologiche di lungo periodo. Se poi i dosaggi calassero di mille volte, l'azione endocrina non si svilupperebbe causa inefficacia dei dosaggi. E addio controllo delle nascite.

Vi è quindi da chiedersi con quale impudenza si possano definire tout court interferenti endocrini degli agrofarmaci, usati per fare tutt'altro e assunti in ragione di meno di un decimo dei dosaggi annui della pillola di cui sopra. Per giunta senza nemmeno essere classificati in sé come "endocrine disruptors". Infine, ci si dovrebbe chiedere per quale ragione un agrofarmaco eventualmente classificato come interferente endocrino in base ai soliti test sovradosati di laboratorio, debba essere bandito quando l'esposizione ad esso fosse in realtà migliaia di volte inferiore a quella alla quale l'effetto è stato misurabile.

Di certo, le pressioni mediatiche che sugli agrofarmaci gravano da anni non aiuteranno i decisori politici a decidere serenamente su una categoria di prodotti senza la quale si potrebbe più che dimezzare la produzione di cibo. E la fame sì è un pessimo "interferente endocrino".

 

Conclusioni

L'agricoltura produce cibo sicuro. Le industrie trasformano materie prime sicure. La distribuzione alimentare vende prodotti sicuri. Potranno piacere di più o di meno. Costare di più o di meno. Essere più o meno simpatici. Ma saranno tutti, inequivocabilmente sicuri.

Farsi influenzare da bollini, semafori e liste prive di fondamento può quindi solo danneggiare gli altri (alcuni produttori) e se stessi (nel proprio portafoglio e alimentazione). E un noto detto ricorda come il furbo danneggi gli altri ricavando un vantaggio per se stesso. Lo sciocco danneggia gli altri e pure se stesso. L'intelligente avvantaggia invece se stesso senza danneggiare gli altri.

Meglio quindi capire, fra le tre opzioni possibili, chi si vuole davvero essere nella vita.