La qualità del suolo su cui insistono le coltivazioni è uno dei fattori principali che determinano la qualità e la quantità di prodotto raccolto. Spesso si è portati a valutare il terreno solo sotto il parametro della tessitura, della composizione chimica o della presenza di sostanza organica, ma talvolta ci si dimentica che il suolo può anche essere la fonte di inoculo di un gran numero di malattie e parassiti.

Per promuovere le buone pratiche di gestione del suolo è nato Best4Soil, un programma internazionale (finanziato con fondi europei Horizon 2020) che mira a condividere conoscenze a livello europeo (coinvolge venti paesi Ue) e che mette a disposizione di agricoltori e tecnici un database contenente informazioni su malattie e parassiti tellurici. Nonché delle schede incentrate sulle buone pratiche da seguire per preservare la salute del suolo, intesa come la capacità di questo di far fronte a malattie e parassiti mantenendo sufficientemente basso il livello delle popolazioni in modo che le colture non subiscano danni.

A livello generale sono state individuate alcune buone pratiche per preservare la salute del suolo. La principale, ma non sempre possibile, è la rotazione delle colture, che disincentiva la selezione di popolazioni 'sgradite' di insetti e microrganismi. C'è poi l'uso di compost o ammendanti organici, l'uso di cover crop e sovesci, che possono aumentare la resa della coltura, migliorare la salute del suolo e la presenza di sostanza organica, nonché ridurre le popolazioni di agenti patogeni. Mentre per eliminare agenti patogeni o nematodi è possibile procedere con la disinfestazione anaerobica e la solarizzazione.

Approfondimenti su ognuna di queste tecniche sono disponibili sul sito di Best4Soil.


Il biocontrollo dei nematodi

Uno degli aspetti più critici per gli orticoltori, ma non solo, è la gestione dei nematodi i quali possono apportare seri danni alle produzioni. Il loro controllo è affidato spesso ad agrofarmaci ad azione fumigante: in passato è stato molto utilizzato il bromuro di metile, molecola da tempo vietata a causa degli effetti negativi sull'ambiente e sull'uomo. Oppure l'1,3 dicloropropene (1,3 D) il cui utilizzo è vietato da quasi un decennio, ma per il quale viene ancora concesso l'uso di emergenza dal Mipaaf, per centoventi giorni su determinate colture e zone geografiche, anche a causa della mancanza di prodotti efficaci registrati per la lotta ai nematodi.

Se in commercio esistono altri prodotti ad azione fumigante, si sta prestando sempre maggiore attenzione al tema della biofumigazione, all'impiego cioè di sostanze di origine biologica per il controllo o la soppressione di popolazioni di nematodi.

Per approfondire il tema abbiamo contattato Giovanna Curto, fitopatologa del Servizio fitosanitario dell'Emilia Romagna che ha lavorato proprio su questo tema.

Giovanna Curto, quali sono le piante che oggi possono essere impiegate per il controllo dei nematodi?
"Le principali famiglie di piante a cui appartengono specie e cultivar selezionate per un elevato contenuto di sostanze bioattive sono quelle delle brassicacee, fabacee e poacee".

In quali modi queste piante esplicano la loro azione nematocida e come avviene lo sviluppo di sostanze biofumiganti?
"Il meccanismo è diverso a seconda delle specie vegetali e della famiglia di appartenenza. Le brassicacee hanno nei tessuti vegetali i glucosinolati che in presenza di acqua e di lesioni nella pianta reagiscono con un enzima interno, mirosinasi, producendo isotiocianato, la stessa molecola dei fumiganti chimici. Le piante si distinguono poi in piante trappola (catch crop) e piante ad azione biofumigante".
 
Giovanna Curto
(Fonte foto: Giovanna Curto del Servizio fitosanitario dell'Emilia Romagna)

Qual è la differenza?
"Le piante trappola hanno un'elevata concentrazione di glucosinolati biologicamente attivi nelle radici. In seguito alla ferita provocata dalla penetrazione del nematode nei tessuti radicali, si attiva l'idrolisi enzimatica con rilascio di isotiocianato e il nematode non è più in grado di completare il suo ciclo di sviluppo all'interno della radice durante il periodo di coltivazione della specie biocida (otto-dieci settimane)".

E qual è il meccanismo d'azione delle piante biofumiganti?
“Le brassicacee ad azione biofumigante hanno elevate concentrazioni di glucosinolati biologicamente attivi soprattutto nella parte aerea della pianta (steli e foglie). Utilizzate come colture intercalari da sovescio, generano isotiocianati o nitrili allo stesso modo dei nematocidi chimici fumiganti. La loro maggiore potenzialità nematocida si manifesta in seguito ad una trinciatura fine e all'interramento a 15-20 centimetri di profondità. In entrambi i casi, il massimo accumulo di glucosinolati nei tessuti radicali e aerei si ha nel periodo della piena fioritura".

Oltre alle brassicacee ci sono altre famiglie utili al controllo dei nematodi?
"Graminacee adatte al sovescio biofumigante sono rappresentate da selezioni di sorghi e sudangrass o da ibridi sorgo x sudangrass. Contengono durrina, un glucoside cianogenico, localizzato nell'epidermide della foglia, che al danneggiamento del tessuto produce composti intermedi che rilasciano acido cianidrico (HCN). La loro azione è biofumigante e si esplica soprattutto a seguito di trinciatura e interramento della pianta dopo sei-otto settimane, poiché nei tessuti giovani il contenuto di HCN è maggiore, e prima dell'inverno perché, dopo una gelata, il contenuto di HCN diminuisce. Ci sono poi alcune leguminose".

Che caratteristiche hanno?
"Fra le leguminose da utilizzare come piante da sovescio bioattive troviamo la Crotalaria juncea (Sunnhemp), che si comporta verso i nematodi (in particolare i galligeni) sia come pianta trappola, sia biofumigante, con produzione di alcaloidi che inibiscono la riproduzione cellulare, manifestando un'azione nematostatica, repulsiva o nematocida. Per una buona bioattività la coltura da sovescio di C. juncea deve essere trinciata e interrata due mesi dopo la semina. Viene spesso impiegata come cover crop in ambienti dal clima temperato-caldo per le notevoli quantità di biomassa, i cospicui apporti di sostanza organica nel terreno, il contenimento delle erbe infestanti e la fissazione dell'azoto nel suolo mediante batteri nei tubercoli radicali".

Come avviene la semina di queste specie?
"Le tecniche di coltivazione per tutte le specie descritte, appartenenti alle diverse famiglie, sono quelle delle colture intercalari da sovescio. Si seminano a file, con interfila di 18 centimetri, alla profondità di 3 centimetri, con una seminatrice da frumento; i quantitativi di seme sono diversi a seconda delle specie: Eruca sativa cv. Nemat 6 chilogrammi/ettaro; Raphanus sativus 25 chilogrammi/ettaro; Brassica juncea 10 chilogrammi/ettaro; Crotalaria juncea: 50 chilogrammi/ettaro".

Come deve avvenire il sovescio?
"La trinciatura deve essere molto fine e l'interramento deve avvenire in contemporanea alla trinciatura per limitare la perdita di sostanze volatili. Le macchine per il sovescio possono essere combinate o a cantieri separati: trinciastocchi e fresa operanti in successione a qualche metro di distanza l'una dall'altra, seguiti da una rullatura compattante. Queste operazioni devono essere eseguite su terreno quasi asciutto e seguite da una leggera irrigazione nei primi 3-4 centimetri di terreno per attivare l'idrolisi e liberare le sostanze fumiganti. Poi è necessario attendere almeno sette-dodici giorni prima di procedere alla semina o al trapianto della coltura principale per evitare fenomeni di fitotossicità".

Il sovescio è l'unico metodo efficace per il controllo dei nematodi?
"Per ottenere un'azione più immediata e nei casi in cui non sia possibile coltivare una intercalare da sovescio, solo per le brassicacee, e in particolare per Brassica carinata, esistono in commercio sfarinati o pellet rappresentati da panelli proteici, sottoprodotti dell'estrazione dell'olio dai semi di B. carinata. Questi sono molto ricchi in glucosinolati e mirosinasi e si attivano con l'acqua".

Come avviene il loro utilizzo?
"Si devono distribuire sull'intera superficie asciutta, dieci-quattordici giorni prima della semina o trapianto della coltura principale, alla dose di 2,0-2,5 tonnellate/ettaro, interrati a 15-20 centimetri e attivati con un'irrigazione. Sono indicati principalmente nelle colture protette, che ne giustificano il costo. In pieno campo possono essere utilizzati in quantità inferiori, al momento del sovescio di una coltura intercalare per aumentare la produzione di isotiocianato, sempre con le attenzioni necessarie per evitare la perdita di sostanze volatili".


Biofumigazione, obiettivo sostenibilità

La tecnica della biofumigazione, sebbene sia più complessa da mettere in atto rispetto all'uso di prodotti chimici di sintesi, rappresenta dunque una valida alternativa per il controllo dei nematodi. Soprattutto per chi è in regime di biologico o è soggetto a particolari restrizioni nell'impiego di agrofarmaci di sintesi.

Non dobbiamo poi scordare che il settore primario sta attraversando un periodo di transizione importante e che nei prossimi anni il tema della sostenibilità sarà al centro delle politiche nazionali ed europee. Basti pensare alla nuova Pac, in discussione a Bruxelles, e alla strategia From farm to fork. Nonché al nuovo Pan, il cui iter d'approvazione sembra essere giunto alle battute finali.