Complessivamente 8mila ettari di impianti colpiti, con una riduzione costante della superficie in tutto il Nord e Centro Italia (-12,6% dei kiwi italiani sono stati sradicati nel 2018, Veneto e Piemonte sono state le regioni maggiormente colpite, rispettivamente con il 70% di kiwi sradicati e -28% di superficie coltivata) con una perdita stimata di circa 750 milioni di Produzione lorda vendibile.

Sono questi i danni prodotti dalla sindrome da declino precoce dei kiwi, comunemente detta moria del kiwi, la patologia che sta devastando i frutteti italiani di actinidia, di cui l'Italia è tra i primi produttori al mondo. Si tratta di una sindrome difficile da contrastare in quanto la causa non è ancora stata identificata, sebbene sia associata a diverse circostanze (funghi e batteri nelle radici, pratiche di irrigazione non appropriate e composizione del suolo), di cui però nessuna determinante in maniera univoca ed esclusiva. La rapidità con cui si diffonde, dalle radici fino alla parte aerea della pianta, e il concorso di cause e di anomalie presentatesi finora, hanno quindi spinto gli esperti a ricercare altri fattori scatenanti per comprendere il decorso della patologia.

Proprio per queste ragioni, i ricercatori del Crea, con il suo Centro di ingegneria e trasformazioni agroalimentari, hanno avanzato l'ipotesi che i cambiamenti climatici e una scorretta gestione del suolo possano rientrare fra le concause e, in particolare, gli eccessi termici potrebbero essere alla base della moria del kiwi, indebolendo le piante e alterando l'equilibrio fra radici e parte aerea nello sviluppo della pianta.

Di conseguenza sono state effettuate prove in campo in un frutteto sperimentale di kiwi, testando diverse pratiche agronomiche in grado di influenzare le caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche del suolo per valutarne l'effetto sulla comparsa o meno dei sintomi di moria. Come, per esempio, la baulatura - che assicura l'arieggiamento delle radici, impedendo ristagni idrici a cui il kiwi è molto sensibile - e l'aggiunta di compost o di microrganismi rizosferici (che popolano la parte del suolo adiacente alle radici) selezionati, per migliorare la struttura e la fertilità biologica del suolo, monitorando contemporaneamente l'andamento della temperatura e lo stato idrico del suolo.

In più, analizzando la crescita delle piante, la morfologia e l'anatomia delle radici, è emersa una possibile correlazione fra l'insorgenza dei sintomi e i dati ambientali, in particolare la temperatura elevata dell'aria e del suolo. Da evidenziare, infine, che la gestione agronomica riduce, ma non impedisce, l'insorgenza e la gravità dei sintomi.

"I dati in nostro possesso - ha dichiarato Laura Bardi, ricercatrice del Crea, Centro di ingegneria e trasformazioni agroalimentari e autrice dello studio - sembrano indicare le alte temperature estive quali fattori scatenanti la moria del kiwi, in quanto causa dell'alterazione anatomica e morfologica delle radici e dell'arresto del loro sviluppo, e probabilmente anche della insufficienza di ossigeno nel suolo, legata quindi non solo ai ristagni d'acqua dovuti alle forti piogge. Stiamo ancora valutando la risposta della pianta all’'mbiente per individuare le azioni da intraprendere per arginare la patologia. Sicuramente interventi agronomici orientati a migliorare la fertilità biologica del suolo e le caratteristiche fisiche possono aiutare, così come ridurre il riscaldamento eccessivo del microambiente della pianta/frutteto, o l'adozione di un approccio più agroecologico alla gestione del frutteto, che tenga conto delle peculiarità di questa pianta e riproduca, per quanto possibile, le condizioni dell'habitat naturale di provenienza".

"E d'altronde - continua l'esperta Crea, che è stata chiamata recentemente in audizione anche in Commissione Agricoltura al Senato (atto n. 147 "Affare sul fenomeno della cosiddetta moria del kiwi") - occorre sempre ricordare che spesso gli ambienti e le tecniche di coltivazione del kiwi non tengono in considerazione i fabbisogni di questa pianta, che in natura cresce arrampicandosi con lunghe liane su altre piante, ombreggiata dalle loro chiome, in ambienti freschi e umidi, per lo più collinari o montani".

Laura Bardi è stata inserita all'interno del Gruppo di lavoro moria del kiwi del Comitato fitosanitario nazionale in qualità di esperto per la Regione del Piemonte.
 
Lo studio, realizzato in collaborazione con Agrion, Fondazione per la ricerca l'innovazione e lo sviluppo tecnologico dell'agricoltura piemontese, Regione Piemonte e Cnr, è stato pubblicato sulla rivista internazionale Frontiers ed è disponibile in questa pagina.