Mai come negli ultimi anni si è assistito a un attacco così veemente contro i prodotti per la difesa delle piante. Probabile che il clamore mediatico nato sull'affair glifosate abbia fatto interessare al settore anche persone che fino a pochi anni fa poco ne sapevano e poco ne parlavano. Oggi, purtroppo, poco continuano a saperne, ma molto pare siano intenzionati a parlare.
E non solo parlare, viste le mozioni e le marce proibizioniste che sono andate in scena nelle ultime settimane in Veneto e le sommosse pugliesi anti "Decreto Martina" per la lotta obbligatoria alla Sputacchina vettrice della Xylella degli ulivi.

In tale contesto già di per sé accalorato si innestano pubblicazioni scientifiche dal dubbio al sospetto, con erbicidi inoculati in colture cellulari in vitro ove gli effetti sulle povere cellule sono ovviamente devastanti, al pari di quanto accadrebbe se si usasse candeggina o fors'anche grappa. Ma questo, ovviamente, non viene detto. Non meno concorrono a gettare benzina sul fuoco le pseudo indagini su pane, pasta, urine, alla ricerca oggi di questo, domani di quello, soprattutto glifosate, senza però mai dire chiaramente che a quelle concentrazioni nulla accade alla salute.

Non stupisce quindi che l'usuale report biennale di Ispra sulle acque abbia avuto l'effetto di una frana in un lago alpino, sollevando onde di acqua mista a fango. I prodromi di tale tempesta, però, si potevano intuire già nel parterre di invitati a parlare nel corso della presentazione ufficiale a Roma, fra i quali spiccano Wwf, Legambiente, Isde (gli ormai noti medici per l'ambiente) e perfino Federbio. Magari sarebbe stato doveroso invitare anche Federchimica, cioè i produttori che vivono sulla propria pelle l'iter normativo dei "pesticidi".
E forse sarebbe stato utile fosse presente un tossicologo di chiara fama come, per esempio, un Angelo Moretto, direttore dell'Icps, o un Marco Trevisan, ecotossicologo e preside della Facoltà di Agraria di Piacenza. Giusto per commentare i dati dal punto di vista dell'esposizione ambientale e umana, stimandone il rischio su base numerica. Tutte persone che si auspica possano quindi partecipare a qualche convegno appositamente organizzato per dire tutto ciò che sul tema andrebbe detto ed è stato invece schivato.

Non ci si deve quindi stupire se poi i media abbiano rilanciato la bomba per la quale le acque italiane sarebbero impestate nere di pesticidi, ben 259 in totale. Come se aprendo i rubinetti uscissero tutti insieme per avvelenare i cittadini.
 

Un report, molti spunti

Leggendo il report 2018 si inizia con l'apprendere che "Il rapporto contiene i risultati del monitoraggio delle acque interne superficiali e sotterranee, e ha tra le finalità quella di rilevare eventuali effetti dei pesticidi non previsti nella fase di autorizzazione e non adeguatamente controllati nella fase di utilizzo. (pag. 8)".

La cosa lascia alquanto perplessi, in quanto Ispra non rileva per nulla eventuali "effetti" delle sostanze chimiche, bensì le semplici presenze. Presenze che non sono affatto figlie di "imprevisti" nella fase di autorizzazione, la quale tiene ben conto della possibilità di contaminazione delle acque, ma stima il rischio accettabile, altrimenti niente autorizzazione. Presenza, infatti, non implica rischio. Un concetto che pare non attecchire nonostante sia stato ripetuto allo sfinimento.

Si può invece concordare sulle irregolarità di utilizzo, come si evince per esempio dallo stupefacente rilevamento di oltre 3 milligrammi per litro di bentazone in uno specifico campione, causato sicuramente da un inquinamento di tipo puntiforme. Non da meno il reperimento di ben 55 sostanze attive in un solo punto di campionamento.
Un numero, per fortuna isolato, che lascia intuire come intorno a quel luogo sia accaduto qualcosa di strano da indagare a fondo. Perché spesso sono le male abitudini di pochi a gettare poi fango sui molti.

Proseguendo si parla quindi di "consapevolezza, a livello scientifico e normativo, che il rischio derivante dalle sostanze chimiche sia sottostimato. Maggiori attenzioni e approfondimenti in relazione agli effetti della poliesposizione chimica sono auspicate dalle autorità dell'Unione europea [Consiglio Ue 17820/09]. Per questo è necessaria una particolare cautela anche verso i livelli di concentrazione più bassi". (pag 9)

La consapevolezza citata è tutt'altro che plebiscitaria. Al contrario, esistono chiare evidenze di segno opposto, ovvero che le preoccupazioni per gli agrofarmaci siano ampiamente sovrastimate, anche grazie al martellamento continuo dei media che raffigurano l'Italia come una spugna impregnata di "pesticidi". Dura infatti spiegare loro che per dare da mangiare a ciascun italiano, per un intero anno, tutti gli agricoltori nazionali, da Aosta a Lecce, utilizzano solo un chilo di sostanze attive, mentre un qualunque cittadino che percorre con la propria automobile 20mila chilometri l'anno brucia almeno una tonnellata di carburanti, ben peggiori rispetto agli agrofarmaci in termini ambientali e tossicologici.

Circa poi i multi-residui, questo è un tema che anche le Autorità elvetiche hanno ritenuto un falso problema perfino negli alimenti (1). Secondo l'analisi svolta dall'Ufficio federale per l'agricoltura, Sezione prodotti fitosanitari: "Oggigiorno, viste le considerazioni teoriche e i risultati dei test sui composti, si ritiene che la presenza di residui multipli negli alimenti non costituisca un rischio per la salute. L'autorità competente conferma questa posizione. Le attuali norme, tra cui le concentrazioni massime fissate nell'OSoE [acronimo di Ordinanza sulle sostanze estranee, nda]e sui componenti sulle base di dati scientifici, garantiscono l'innocuità dei residui per quanto riguarda la salute nonché la loro presenza solo in quantità tecnicamente inevitabili".

Nonostante ciò, la questione del multiresiduo è sempre più di estrema attualità. Per quanto sia ormai appurato che le varie sostanze attive stallino molto lontane dai propri valori di prima sicurezza, cioè l'Admissible daily intake, la risposta sarà sempre la medesima, cioè che non sappiamo cosa possano generare le esposizioni a più agrofarmaci contemporaneamente. Il problema è che per quanti sforzi si possano fare, non lo sapremo mai, perché i mix sono variabili nel tempo, nello spazio, nella composizione e nella tossicologia. Sarebbe quindi forse ora di ammettere che il vicolo è cieco e che sono altre le strade da intraprendere, come per esempio quella di incentivare l'adozione di macchinari per l'irrorazione che riducano quasi a zero la deriva. Perché stranamente di come vengano applicati i prodotti si parla dal poco al nulla.
 

Campioni in crescita, percentuali pure

Secondo il report 2018, nel biennio 2015 - 2016 sarebbero stati analizzati 35.353 campioni ed effettuate 1.966.912 analisi.
Sarebbe pari al 67,0% la percentuale dei punti positivi nelle acque superficiali e del 33,5% di quelle sotterranee. Rispetto alle edizioni precedenti, le analisi sono state praticamente raddoppiate e i punti di campionamento, oltre a essere cresciuti di numero, sono stati pure ridistribuiti secondo una logica per la quale aumentassero le probabilità statistiche di trovare qualcosa.
Ciò non è di per sé sbagliato in un'indagine di monitoraggio, anzi, ma l'effetto di tali riposizionamenti sulle percentuali di ritrovamento dovrebbe essere spiegato in modo chiaro, perché nei fatti non sta peggiorando l'ambiente, bensì sta solo migliorando la probabilità di trovare molecole.
Il continuo variare di punti di campionamenti, per numero e localizzazione, rende peraltro molto difficile fare comparazioni fra i diversi report, dando cioè solo indicazioni di massima sui trend macroscopici, ma non permette di descrivere in modo preciso le oscillazioni nelle percentuali e nelle concentrazioni. Se infatti si mirano di più i siti ad alta probabilità di rinvenimento, diventa anche più probabile che si alzino anche i valori medi e massimi delle concentrazioni misurate, senza però che queste siano davvero salite fisicamente nel tempo: erano lì anche prima, forse anche più alte, ma semplicemente non le si cercava.

Per fortuna, nel report si ammette che "le concentrazioni misurate sono in genere frazioni di μg/L (parti per miliardo)" salvo poi scivolare nella frase successiva: "… ma gli effetti nocivi delle sostanze si possono manifestare anche a concentrazioni molto basse". (Pag 10)

Ammettere che le concentrazioni sono bassissime potrebbe infatti rassicurare il lettore, ma ad allarmarlo nuovamente ci pensano discutibili illazioni su supposti "effetti nocivi" mai dimostrati nella realtà, men che meno da Ispra. Anche perché ciò sovvertirebbe ogni basilare regola della tossicologia, una su tutte "è la dose che fa il veleno".
E se la dose non c'è, non c'è neanche il veleno.
 

Limiti da rivedere

Un altro tema sul quale spendere tempo e attenzione è quello delle soglie di qualità fissate per le acque.

"Nelle acque superficiali, la frequenza del superamento degli SQA ha un aumento pressoché regolare, raggiungendo il valore massimo nel 2016 (23,9%). Le sostanze che maggiormente contribuiscono a determinare i superamenti sono il glifosate e il metabolita AMPA." (pag 11).

"Per tutti i singoli pesticidi (inclusi i metaboliti) non specificati in tabella 1/B si applica il limite di 0,1 μg/l e per la somma dei pesticidi il limite di 1 μg/l (fatta eccezione per le risorse idriche destinate ad uso potabile per le quali il limite è 0,5 μg/l". (Pag. 26)

Il tema degli SQA appare misterioso ai più. A volte motivatamente. Si mischiano infatti degli SQA calcolati sugli organismi acquatici con il fatidico 0,1 µg/L fissato per le acque potabili, sul quale invece molto si può dire.
Ma non basta: "In particolare i criteri minimi di efficienza per i metodi di analisi prevedono un'incertezza di misura pari o inferiore al 50% stimata al livello dello SQA pertinente e un limite di quantificazione pari o inferiore al 30% dello SQA. La Direttiva definisce anche le modalità per il calcolo delle concentrazioni medie ai fini del confronto con i limiti, in particolare: per le misure al di sotto del LQ si assume un valore della concentrazione pari al 50% del LQ" (pag. 26)

In pratica, messa in tal modo, anche se un'analisi non trova una molecola sopra il suo limite di quantificabilità, le viene comunque appioppata una concentrazione pari al 50% del suddetto limite. Così facendo, però, si alza artificialmente la percentuale di positivi e si alza la media generale. Al contrario, un valore sotto il limite di quantificabilità sarebbe meglio fosse incluso nei non-positivi e basta. Se tale approccio fosse adottato per esempio dall'antidoping sportivo, non vi sarebbe atleta ammesso a partecipare ad alcuna competizione per molti anni, seppur avulso da qualsivoglia assunzione di sostanze proibite.

In ogni caso, nella lista di sostanze prioritarie i superamenti della soglia sono nell'ordine delle frazioni di punto percentuale. Nelle acque superficiali le uniche sostanze attive trovate sopra l'1% dei casi sono clorpirifos (1,1%), trifluralin (1,3%), esaclorobenzene (2,1%), esaclorocicloesano (2,8%). In quelle sotterranee nessuna oltrepassa l'1% di superamento dei propri SQA. Le uniche trovate mostrano superamenti nello 0,4% dei casi (atrazina) e nello 0,2% (pentaclorobenzene). In quelli nella cosiddetta Watch List solo oxadiazon supera l'1% degli sforamenti, con 1,4%, pur essendo stato trovato nel 23,6% dei casi. Nelle profonde è invece imidacloprid a stare sopra l'1%, riportando un valore di 1,6%. La maggior parte di queste molecole riportano infatti una sfilza di zeri in termini di superamento degli SQA, anche perché nessuna molecola della lista supera il 10% in termini di percentuale di ritrovamento. Imidacloprid è stato invece trovato nel 51,4% dei punti di campionamento, ma solo nello 0,4% dei casi supera l'SQA.
 

Una molecola, molteplici fonti

Dal report Ispra 2018: "Nelle acque superficiali, il glifosate e il metabolita AMPA, cercati solo in Lombardia, Piemonte, Sicilia, Toscana e Veneto, sono presenti con frequenze complessive rispettivamente del 27,5% e del 49,2%".

In pratica AMPA viene rilevato con frequenza doppia rispetto a glifosate. Pare cioè venga trovato anche dove glifosate non c'è. Di fatto non è strano, perché le fonti di AMPA sono diverse, incluse quelle da detersivi, cosa che non viene sottolineata mai. Il fatto poi che AMPA si trovi in concentrazioni più elevate di glifosate, potrebbe anche implicare che pure nei casi di compresenza una quota significativa non dovrebbe essere attribuita all'erbicida, bensì alle medesime fonti extra-agricole che fanno trovare AMPA in tutti gli altri punti di campionamento dove glifosate è invece assente.

Circa le non conformità, molteplici possono essere i commenti: "A livello nazionale su 1.554 punti di monitoraggio delle acque superficiali, 371 (23,9%) hanno livelli di concentrazione superiore agli SQA. La Lombardia, con il 49,4% dei punti che superano gli SQA, ha il livello più elevato di non conformità. Va detto che le sostanze che determinano il maggior numero di superamenti dei limiti sono il glifosate e il metabolita AMPA, cercato in modo capillare nella Regione".
 

Limiti di legge: da rivedere

Come già ripetuto in molte occasioni, il limite di 0,1 µg/L risulta ormai del tutto inadeguato quale riferimento. Soprattutto pensando che è un limite meramente normativo e non di sicurezza tossicologica.
Peraltro, anche il limite complessivo di 0,5 µg/L appare fuori luogo per i medesimi motivi, anche perché se una fonte di approvvigionamento supera tale soglia scatta l'obbligo di intervenire sulle acque per abbatterne i contenuti, il tutto con un aggravio dei costi di potabilizzazione delle acque. Costi che se risultano inutili possono essere anche chiamati sprechi.
Dato che il 25% dei punti di campionamento superficiali richiede tali interventi (8,7% > 0,5 < 1 e il 16,3% > 1), significa che una fonte superficiale di approvvigionamento su quattro va sanificata anche se di fatto non ce ne sarebbe bisogno. A questi si aggiunge il 3,7% delle profonde.
 

Analisi delle tabelle di sintesi

Dall'analisi delle tabelle di sintesi del report 2018 e dal loro confronto cone gli ultimi tre report emessi, è stato poi redatto un documento scaricabile in pdf, alla cui lettura si rimanda. In esso sono state considerate diverse molecole che dal report emergono come prioritarie.

Come note utili, va specificato che sono stati considerati i valori del 95esimo percentile delle sostanze attive considerate, ovvero quelli che racchiudono il 95% dei valori rilevati in campo. O meglio, che dovrebbero contenerli, perché leggendo il report si evince come in diversi casi i picchi massimi rilevati sarebbero inferiori al 95esimo percentile. Ciò appare ovviamente privo di senso, perché se un valore è inferiore al 95.esimo percentile dovrebbe far parte di esso. La spiegazione data da Ispra è la seguente:"I valori percentili contrassegnati con * sono maggiori del valore massimo in quanto nella determinazione pesano gli elevati limiti di quantificazione di alcuni laboratori regionali".

In altre parole, dato che i limiti di rilevamento sono disomogenei fra le diverse ARPA, si può arrivare all'assurdo per il quale il picco massimo è inferiore al 95esimo percentile. Detta in altri termini, quei dati non sono quelli effettivamente rilevati, bensì i risultato di elaborazioni successive.

In ogni caso, l'analisi numerica ha condotto alle seguenti conclusioni:

  • Le concentrazioni dei 95esimi percentili sono per lo più nell'ordine delle frazioni di microgrammo, con valori preponderanti che stallano sulle poche decine di nanogrammi per litro (miliardesimi di grammo). Considerando poi la presenza media stimata da Ispra di 4,5 molecole nei vari campioni, e considerando il consumo di due litri di acqua al giorno per 365 giorni, si ottengono valori fra i 100 e i 200 microgrammi/anno. Ovvero una quantità così bassa da rendere inutile qualsivoglia considerazione di tipo tossicologico, con buona pace dei sostenitori delle "mixture".
  • La presenza nelle acque, come da punto precedente, è di tre zeri inferiore a quella stimabile per l'assunzione di sostanze attive tramite alimentazione. I residui complessivi nei cibi sono infatti stimabili nell'ordine di 100-200 milligrammi l'anno, diminuendo poi di una quota preponderante tramite lavaggio, asciugatura, sbucciatura e cottura. E già così l'esposizione per l'uomo risulta irrisoria, potendo definire i rischi per la salute tendenti asintoticamente a zero. Figuriamoci ragionando di numeri che si posizionano tre zeri al di sotto.
  • Per verificare la sicurezza delle acque a uso potabile sono state adottate le formule suggerite dalle linee guida australiane, le quali partono dall'Admissibile daily intake, opportunamente ridotto del 90% come ulteriore fattore di sicurezza per l'uomo. Dal confronto fra picchi massimi ritrovati nelle acque e i limiti calcolati per via tossicologica emerge che nessuna delle molecole messe sotto accusa supera questi limiti, stallandovi abbondantemente al di sotto.
    Tranne cadusafos: questo estere fosforico per le linee guida australiane dovrebbe stare sotto gli 0,035 microgrammi per litro. Ovvero un terzo dei limiti italiani. Un'evidenza che dovrebbe far comprendere l'impellenza di rimettere mano a quello scellerato 0,1 µg/L, perché finché ci si ostinerà a usare questo, si continuerà anche a permettere a ogni allarmista circolante in Italia di seminare il panico fra la cittadinanza, accampando rischi per la salute di fatto inesistenti.


1) Ufficio federale dell'agricoltura UFAG (2017): "Residui multipli nelle derrate alimentari: posizione dell'autorità competente in materia di autorizzazione per i prodotti fitosanitari".