Un giorno li cercano nelle mele, un altro si dà la caccia a glifosate nella pasta, nella birra e perfino nel cotone. Per non parlare delle campagne di demonizzazione che esplodono puntuali – ampiamente sobillate – quando vengono pubblicati i report di Ispra sulle acque (approfondimenti qui, qui e qui), facendo credere di stare galleggiando su un mare di “pesticidi”, usati in modo “sempre più massiccio” e “indiscriminato”, glissando abilmente sul fatto che gli usi in tonnellate siano calati di un terzo in soli dieci anni.
 
L’obiettivo comune è sempre quello: spaventare la popolazione affinché si converta al biologico, sfuggendo, sempre secondo loro ovviamente, alle minacce della perfida chimica agraria di sintesi.
E in tal senso non c'è nulla di meglio che analizzare le urine delle persone per fargli vedere che, sì, i pesticidi attraversano il loro corpo.
 
Ultima della serie, un’analisi effettuata sulle urine di una famiglia romana, nell’ambito di una campagna, #ipesticididentrodinoi, promossa da FederBio con gli immancabili Isde-Medici per l’Ambiente, Legambiente, Lipu e Wwf Italia. Dall’analisi emergerebbe come dopo 15 giorni di dieta bio calerebbe significativamente la presenza di residui di agrofarmaci nelle urine.
 
Circa la fatuità di tali analisi micro-dimensionali si è già espresso con estrema efficacia Marco Bella, ricercatore in chimica organica, cui si rimanda per gli opportuni approfondimenti.
 
Circa invece la situazione più generale dell’esposizione umana giova fare il punto ampliando di molto l’orizzonte familiare preso in considerazione dalla summenzionata campagna.
 
Un lavoro simile venne già commissionato in passato da Coop Svezia(1), sempre più coinvolta nel business del bio. Dallo studio scandinavo si sarebbero ottenuti risultati in qualche modo simili a quanto avvenuto a Roma. Anche in quel caso i “pesticidi” di sintesi sarebbero scesi dopo un periodo di alimentazione bio. In quello studio, però, i ricercatori ebbero anche l’onestà intellettuale di riportare la comparazione fra le concentrazioni urinarie trovate e la soglia di sicurezza per ogni sostanza attiva. Il risultato fu che le molecole c’erano, è vero, ma stallavano nei pochi punti per cento o per mille delle proprie soglie ammissibili (Adi). Cioè, il nulla. A conferma della profonda differenza che intercorre fra “presenza” e “rischio”. Una differenza sostanziale che viene però sapientemente dribblata dalle campagne come quella di Federbio.
 
Da quello studio svedese, peraltro, si evince pure quanto l’esposizione tramite le acque risulti del tutto trascurabile, come facilmente prevedibile, confermando l’origine alimentare della quasi totalità dei residui di agrofarmaci. Nei figli di quella famiglia scandinava è infatti sparito praticamente ogni tipo di residuo, soprattutto per il fatto che non bevono (ovviamente) né vino, né caffè. Ci se ne ricordi al prossimo Report Ispra, nel 2018, quando riesploderà l’usuale campagna di demonizzazione a orologeria.
 
Qualcosa sarebbe quindi bene avvenisse anche in Italia. Per esempio, sarebbe giunto il momento di dare vita a progetti pubblici come quelli armonizzati dal US Department of Health and Human Services, grazie ai quali si evince come siano centinaia le molecole presenti nelle urine degli americani. E fra queste, si comprende facilmente come gli agrofarmaci siano uno fra gli ultimi dei problemi. Soprattutto pensando a glifosate, monitorato per 23 anni nelle urine di una popolazione di mille individui(2), scoprendo che anche nel caso peggiore si stima non venga superato il milligrammo di sostanza attiva assorbita in un anno intero. Perché a volte non c’è migliore conferma della mancanza di rischi di quella fornita dai monitoraggi usati per fare credere che ci siano.
 
Grazie a tali monitoraggi ufficiali, magari da far svolgere al ministero della Salute su migliaia di individui, non su una famiglia romana, si potrebbe forse spiegare come mai, per esempio, si trovano 43 differenti farmaci nei fiumi(3), oppure ormoni e perfino metaboliti della cocaina(4). Si comprenderebbe inoltre quanti prodotti usati per la cura della persona o degli ambienti domestici finiscono nelle vesciche dei cittadini, i quali li hanno magari utilizzati per proteggersi da quelle fastidiose zanzare che, ovviamente, pungono loro in prima persona. Condizione quindi che giustifica appieno l’apposizione di “pesticidi” sul proprio stesso corpo e pure su quello dei figli, senza fare tante storie come quando invece si parla di Prosecco. E poi metalli pesanti, idrocarburi, solventi e tutta quella miriade di sostanze e composti cui la vita moderna espone. In pratica le travi di cui l'opinione pubblica nulla sa e nulla chiede di sapere, distratta com’è dalle pagliuzze additate da Federbio. Perché quando il dito indica l’agrofarmaco, lo stolto guarda il dito, l’ingenuo guarda l’agrofarmaco, il saggio guarda cosa stia facendo l’altra mano.
 
Si attende ora la prossima notizia boom, il prossimo monitoraggio choc. Auspicando che nel frattempo il ministero della Salute si decida appunto a creare e divulgare una banca dati di riferimento ufficiale, robusta come quella americana, atta a rendere trasparenti le molteplici contaminazioni dei cittadini causate dalla miriade di sostanze cui essi si espongono, spesso volontariamente. Così forse la si farebbe finita con le microanalisi puntuali, svolte da associazioni con enormi interessi di parte, anziché da scienziati realmente indipendenti.
 

 Riferimenti bibliografici

1) Jorgen Magner, Petra Wallberg, Jasmin Sandberg, Anna Palm Cousins (2015): “Human exposure to pesticides from food”. Swedish Environmental Research Institute, per conto di Coop Svezia
 
2) Paul J. Mills, Izabela Kania–Korwel, John Fagan et al (2017): "Excretion of the Herbicide Glyphosate in Older Adults Between 1993 and 2016". JAMA. 2017;318(16):1610–1611
 
3) Bianca Ferreira et Al. (2011): “Occurrence and distribution of pharmaceuticals in surface water, suspended solids and sediments of the Ebro river basin, Spain”. Chemosphere, Volume 85, Issue 8, November 2011, Pages 1331-1339
 
4) Ettore Zuccato et Al. (2005): “Cocaine in surface waters: a new evidence-based tool to monitor community drug abuse”. Environmental Health 2005 4:14