Proviamo a immaginare cosa accadrebbe se un giorno una multinazionale dell’agrochimica si prendesse la briga di sviluppare un prodotto fitosanitario contenente una sostanza attiva sicuramente cancerogena per l’uomo (frase di rischio H350), mutagena (H340), dannosa per i feti (H360), portatrice di gravi lesioni oculari (H318) e, in caso di esposizione prolungata, causa di danni severi a cuore, fegato e reni (H372). 
 
Questa ipotesi è stata proposta ad alcuni “regulatory” di società operanti in Italia e la risposta può essere riassunta più o meno come segue: “Ma non ci penso nemmeno…”.
 
Innanzitutto perché una tale sostanza attiva, con un profilo tossicologico così negativo, avrebbe scarse probabilità di essere autorizzata e, anche se mai ce la facesse, sarebbe dura vederle superare il successivo processo di revisione europea. Ma anche se per uno strano caso ricevesse la luce verde, poi nessuno la vorrebbe sul mercato. Sarebbe infatti fuori da ogni “protocollo” o “vademecum” che dir si voglia, perché patirebbe di etichette talmente gonfie di pittogrammi e frasi di rischio da scatenare sollevazioni popolari, mediatiche e quindi politiche contro chi avesse la malaugurata idea di inserirlo nei propri disciplinari. Forse perfino le grandi distribuzioni organizzate porrebbero dei veti al suo utilizzo, chiedendone l’esclusione dai programmi di difesa se si vuole poi conferir loro i prodotti.   
 
Peccato che un tale prodotto sia già in commercio, di pubblica vendita e non serva nemmeno uno specifico patentino per acquistarlo e utilizzarlo. Inoltre, sorpresa delle sorprese, non è un antiperonosporico, né un diserbante. Non si applica cioè nei campi ma, anzi, lo si trova in bella mostra sugli scaffali dei supermercati e nelle enoteche. Si chiama “Vino” e contiene alcol in ragione di circa il 13% medio. Una "sostanza attiva", appunto, gravata da tutte le ombre tossicologiche di cui sopra. 
 

Un messaggio ai produttori

Fra tutte le categorie di produttori agricoli ve ne sono due che sarebbe opportuno non parlassero di salute, di sicurezza per il consumatore e, soprattutto, di cancri: sono i tabacchicoltori e, appunto, i vignaioli. Entrambi raccolgono materie prime che una volta trasformate in prodotti finiti contengono sostanze che stanno in gruppo 1 dello Iarc, quello dei sicuramente cancerogeni, più altri rischi sanitari tutt’altro che leggeri. Vale a dire, se fossero agrofarmaci nessuna multinazionale si oserebbe mai svilupparli a fini registrativi, ben conscia di quanto sia controproducente e sostanzialmente inutile avere a catalogo prodotti del genere, coi relativi pittogrammi da “morte secca”.
 
Tralasciando i tabacchicoltori, ormai quasi una rarità in Italia e di norma saggiamente silenziosi, pensiamo invece a quanta impudenza ci vuole perché un vignaiolo – che vende un prodotto contenente una sostanza sicuramente cancerogena – s’indigni se qualche collega usa dithianon, o folpet, o mancozeb, o glifosate. Cioè sostanze che rispetto all’alcol contenuto nel suo vino avanzano profili tossicologici decisamente meno preoccupanti.
 
Peraltro, non pare coerente con l'attuale clima anti-pesticidi neppure il comunicato stampa del 12 aprile di Anag, Assaggiatori grappe e acqueviti, la cui presidentessa Paola Soldi plaude alla proposta europea di inserire nelle etichette alcune indicazioni obbligatorie circa gli ingredienti e gli aspetti nutrizionali di tutte le bevande alcoliche. “Un altro passo in avanti per garantire trasparenza verso i consumatori e rafforzare la cultura del bere consapevole”, si afferma. Nel medesimo comunicato gli alcolici vengono simpaticamente vezzeggiati quali “prodotti spiritosi”.

Un bel salto comunicativo rispetto agli appellativi crocifissori spesso appiccicati agli agrofarmaci proprio da molti viticoltori. Agrofarmaci, peraltro, sul cui uso consapevole tutto il mondo tecnico e dell’industria spende sforzi importanti da molti anni senza che ciò venga mai riconosciuto abbastanza.
 
Forse gioverebbe al buon senso dell’intera categoria “alcolica” se anche tali prodotti venissero etichettati con i medesimi pittogrammi usati per gli agrofarmaci. Vedendosi obbligati a mettere in etichetta l’omino col petto che esplode, accompagnato da frasi di rischio su cancri e feti, forse anche i vignaioli più verdi e oltranzisti capirebbero quanto allarmismo hanno inutilmente propalato in materia di agrofarmaci. Come pure capirebbero quanto sia sciocco mettersi proni alle ubbie più o meno strumentali dei media, arretrando sul fronte tecnico della difesa solo perché qualche trasmissione a tema getta ombre sul loro operato. Perché le trasmissioni passano, le patologie vegetali no.
 
Forse, il conto di alcune scelte “coraggiose e lungimiranti” in tema di agrofarmaci non verrà presentato nel 2017, che al momento pare caldo e asciutto. Ma il tempo è galantuomo e di certi autogol porta a lungo memoria. Forse, fra due o tre anni qualcuno ammetterà che un paio di veterani all’anno magari servono. Non dappertutto, non a chiunque, ma per lo meno a molti.
 
Si spera però che in tale frangente ogni portatore d’interesse stappi una bottiglia di vino e se la degusti. Perché almeno a bocca piena eviterebbe di ripetere le medesime sciocchezze "agrofarmacologiche" già seminate in passato, sui social e non.

 
Bibliografia e approfondimenti: