La possibilità di potenziare la produzione di biogas degli impianti di cogenerazione esistenti per produrre anche biometano, apre nuove sfide gestionali per le aziende agroenergetiche. La principale sfida consiste nel risolvere l'aumento indesiderato del carico di azoto al terreno, derivante dalla necessità di sostituire gli insilati con le deiezioni animali e altri sottoprodotti, in modo da poter accedere agli incentivi per "biometano avanzato".

Le alternative possibili sono l'acquisto o l'affitto di maggiore superficie agricola per lo spandimento, oppure l'installazione di un impianto di denitrificazione, che consenta di mantenere costante la superficie agricola nel rispetto della corposa normativa vigente: 
  • la direttiva 91/676/CEE, nota come direttiva nitrati
  • il dlgs 152/2006 "Norme in materia ambientale", Parte terza relativa alla "Tutela delle acque dall'inquinamento", art. 92 ("Zone vulnerabili da nitrati di origine agricola") e art. 112 ("Utilizzazione agronomica);
  • il dm 25 febbraio 2016 n. 5046 "Criteri e norme tecniche generali per la disciplina regionale dell'utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento e delle acque reflue, nonché per la produzione e l'utilizzazione agronomica del digestato". (Vedasi Il punto della situazione sul decreto effluenti);
  • Il dm 19 aprile 1999 "Codice di buona pratica agricola".

Analizziamo dunque una breve rassegna delle tecnologie di denitrificazione, evidenziandone pregi e difetti.
 

Le tecnologie di denitrificazione dei liquami

Laddove il quoziente fra carico di azoto nei digestati e superficie agricola disponibile superi i limiti normati, si rende necessario eliminare l'eccesso di azoto. Esistono due grandi gruppi di tecnologie di trattamento dei digestati:
  • Tecnologie conservative.
    Non eliminano l'azoto, semplicemente lo spostano o lo fissano in qualche forma stabile, talvolta con lo scopo di facilitare la vendita del sottoprodotto come concime azotato organico. 
  • Tecnologie riduttive.
    Sono perlopiù processi biologici che trasformano l'azoto ammoniacale in azoto libero, il gas inerte che costituisce il 78% dell'atmosfera, e in parte anche in azoto organico (proteine e aminoacidi).

Fra i processi conservativi annoveriamo:
  • Separazione tra solido e liquido.
    L'azoto rimane perlopiù disciolto nella frazione liquida, che poi viene sottoposta ad ulteriori trattamenti. La frazione solida viene compostata per eliminarne l'azoto, che se ne va in atmosfera, oppure viene stabilizzata con l'aggiunta di acido solforico - per evitare l'evaporazione dell'ammoniaca - e poi pellettizzata per la sua commercializzazione come concime organico secco.
    Le tecnologie di separazione più diffuse sono: la vagliatura (5% di N recuperato nei solidi), la separazione mediante compressori di tipo elicoidale (fra l'8% e il 18% di N recuperato nella frazione solida) o centrifugo  - detto anche decanter -(fino al 60% di N recuperato nei solidi) o mediante tamburo rotante con rulli (13% di N nei solidi). Lo svantaggio di tali macchinari è il consumo elettrico, particolarmente elevato nel caso delle centrifughe. Nel caso specifico di queste ultime, va ricordato il costo dei flocculanti, necessari per poter aggregare e separare i solidi microscopici. I vantaggi sono la semplicità operativa e l'ingombro relativamente piccolo dei macchinari.
  • Filtrazione a membrane.
    Processo presentato da alcune aziende e ricercatori universitari come la panacea per il recupero dell'azoto. Offre elevate efficienze teoriche di separazione, ma in pratica una lunga serie di svantaggi: elevato costo di acquisto, intasamento frequente delle membrane e relativi costi di manutenzione, elevato consumo elettrico, ma soprattutto dipendenza tecnologica dal fornitore, che in genere detiene il monopolio sui componenti critici del sistema. In genere, la filtrazione a membrane deve essere installata forzosamente dopo un sistema di centrifugazione, perché richiede che il liquame da trattare sia relativamente "pulito". 
  • Disidratazione.
    E' un processo molto semplice, ma che richiede enormi quantità di calore. E' fattibile d'estate, quando il calore dai cogeneratori dell'impianto è disponibile al 100%. Di solito, al digestato in ingresso si aggiunge dell'acido solforico per evitare l'evaporazione dell'ammoniaca, in questo modo rimane l'azoto come solfato di ammonio disciolto nel concentrato palabile risultante dal processo. Il concentrato costituisce tra il 6% e il 10% della massa iniziale del digestato e contiene circa il 100% dell'azoto iniziale, si può pellettizzare e vendere come concime organico solido. L'eventuale condensato, invece, si può utilizzare come acqua di processo nello stesso impianto. 
  • Disidratazione sottovuoto.
    Similare alla precedente, ma opera a temperature dell'ordine dei 40°C e sottovuoto. Presenta quindi un consumo termico inferiore, ma richiede un notevole consumo elettrico per fare e mantenere il vuoto, nonché l'utilizzo di agenti antischiuma. 
  • Strippaggio.
    Consiste nel soffiare aria nel digestato, convenientemente addizionato con agenti antischiuma per favorire l'evaporazione dell'ammoniaca. Successivamente l'aria viene lavata con una soluzione di acido solforico o fosforico per recuperare l'ammoniaca, la quale viene poi ulteriormente concentrata. Il risultato dello strippaggio è un fertilizzante azotato liquido. In alcuni processi, al posto dell'antischiuma viene preferito un sistema misto di disidratazione o disidratazione sottovuoto, seguito dal lavaggio dell'aria con soluzione acida. Benché si tratti di impianti relativamente semplici e non molto ingombranti, dalla tecnologia arcicollaudata - quindi facili da progettare - e valorizzino sia il calore residuo del cogeneratore che l'azoto del digestato, ancora oggi il loro costo inspiegabilmente elevato limita la loro diffusione. Il vantaggio dello strippaggio rispetto ai sistemi di disidratazione è il minore consumo di acido: richiede solo la quantità strettamente necessaria per la reazione dell'ammoniaca. Lo svantaggio è la necessità di concentrare la soluzione finale di sali di ammonio per ridurre il volume di stoccaggio e  i costi di trasporto.
  • Precipitazione di struvite.
    E' un metodo ancora poco diffuso in Italia, perché l’uso della struvite come fertilizzante non è specificamente normato e quindi alcune amministrazioni la considerano un "rifiuto" anziché un "sottoprodotto". Tuttavia, il 24 ottobre del 2017, grazie ad una serie di emendamenti alla direttiva europea dei fertilizzanti la struvite e il biochar rientrano tra i fertilizzanti con la marcatura CE. La struvite, decomponendosi a contatto con il terreno è un ottimo fertilizzante a lento rilascio, un sale complesso: - fosfato di magnesio-ammonio esaidrato - utile anche per recuperare il fosforo dal digestato. In pratica, aggiungendo al digestato dell'idrossido, o un sale di magnesio, si ottiene abbastanza velocemente la precipitazione dei cristalli di struvite sul fondo del reattore dalla reazione con i fosfati e l'ammonio (Foto 1).
    Lo svantaggio di questa tecnica è la necessità di mantenere fluido il digestato, pertanto a monte serve una filtrazione spinta. Inoltre, è necessario gestire la logistica e costi di approvvigionamento del magnesio. 
  • Precipitazione come gessi di defecazione.
    E' un processo semplice e robusto, per contro comporta il consumo di cloruro ferrico, calce e acido solforico. Per approfondire l'argomento rimandiamo all'articolo dello stesso autore Gessi e carbonati di defecazione.
  • Assorbimento su zeoliti.
    Esiste una notevole quantità di studi condotti da aziende fornitrici, università e centri di ricerca su questo argomento, con infinite varianti di utilizzo. L'idea di base è che l'ammoniaca, grazie al potere assorbente delle zeoliti, non evapora nell'atmosfera e non viene dilavata dalle piogge. Successivamente, viene recuperata mediante la rigenerazione delle zeoliti con appositi prodotti chimici (poco frequente) oppure con lo spargimento delle stesse sul campo, dove rilasciano lentamente l'azoto, assieme a fosfati, potassio e altri nutrienti, direttamente alle radici delle piante. Secondo un produttore di zeoliti ne servirebbero 50 tonnellate per trattare 200 m3 di digestato, l'85% dell'azoto contenuto verrebbe assorbito.
 
Struvite recuperata da liquami suini
Foto 1: Struvite recuperata da liquami suini
(Fonte foto: Genocov, Gruppo di trattamento degli effluenti liquidi e gassosi per il recupero dei nutrienti, l'eliminazione degli odori ed i composti organici volatili dell'Università di Barcellona)

I processi riduttivi dell'azoto si basano prevalentemente sull'azione di microrganismi e/o sull'assorbimento da piante macrofite.
 
  • Lagunaggio. E' il processo di denitrificazione più semplice, ma ormai quasi in disuso per le emissioni di odori e di gas ad effetto serra, e per la superficie occupata dalle vasche.
  • Processo nitro-denitro. E' un metodo molto utilizzato nel trattamento di acque fognarie. Richiede alti consumi energetici per l'aereazione del liquame nel primo stadio, appunto la nitrificazione dell'ammonio (Foto 2). Un secondo passaggio, anaerobico, converte i nitrati prodotti dall'aereazione in azoto libero grazie all'attivazione dei batteri denitrificanti. Lo svantaggio di questo processo è la scarsa selettività dell'ossigeno, che oltre a produrre i nitrati reagisce anche con il carbonio dei solidi organici contenuti nel liquame. Nel trattamento delle acque fognarie, il cui tenore di materia organica è tipicamente inferiore all'1%, la scarsa selettività dell'ossigeno non è un problema, ma nel caso dei digestati, che tipicamente ne contengono almeno 6% di solidi volatili, invece comporta un importante spreco di energia elettrica per ottenere l'effetto nitrificante desiderato. 
  • Processi nitrito-denitro e Sbr (Sequential batch reactor). Sono varianti del precedente che richiedono minore consumo di energia, perché l'ammonio viene prima ossidato a nitrito anziché a nitrato. 
  • Processo anammox. E' un metodo basato su dei particolari batteri che, in condizioni anaerobiche, convertono direttamente l'ammonio in azoto libero. Purtroppo, si tratta di batteri difficili da isolare e la cui crescita è lentissima. Inoltre, sono molto sensibili alla presenza di antibiotici o prodotti chimici, e alle variazioni brusche di pH e temperatura. Le esperienze condotte finora su digestati e liquami agricoli sono sempre state fallimentari, malgrado le considerazioni teoriche di una frazione del mondo accademico che difende tale tecnologia.
  • Fotobioreattori con microalghe. Anche questa è una tecnologia difesa da una frazione consistente del mondo accademico e perfino dalla Unione europea. Finora si è sempre dimostrata fallimentare, per l'elevato costo dei fotobioreattori e la manutenzione ad essi associata, nonché per l'elevata torbidità del digestato, la quale ne impedisce la crescita delle microalghe. L'argomento è stato trattato in dettaglio nell'articolo dello stesso autore I biocarburanti da alghe in Europa: 67 milioni di euro pubblici bruciati inutilmente.
  • Compostaggio della frazione solida, ed assorbimento della frazione liquida su paglia o trucioli, seguito da compostaggio. Il compostaggio è semplice quando il digestato contiene una considerevole frazione solida di tipo fibroso, facilmente separabile con un compressore elicoidale o un separatore a tamburo. Quando si deve trattare la frazione liquida del digestato è inevitabile dover aggiungere uno strutturante. L'utilizzo della paglia come strutturante è uno spreco economico, perché la stessa sarebbe più utile come sottoprodotto per l'alimentazione del digestore. L'utilizzo di trucioli, cippato o segatura di legno, può presentare invece qualche criticità logistica, per la competizione con gli impianti di combustione di biomassa. In ogni caso, il compostaggio richiede un piazzale di cemento di dimensioni consistenti, l'impiego di macchinari speciali per il rivoltamento delle pile, un notevole consumo di elettricità e, nei mesi estivi, anche acqua per mantenere un adeguato livello di umidità.
  • Conversione dell'ammonio in proteine vegetali. Il trattamento si basa sulla coltivazione di lenticchia d'acqua ed il suo ulteriore utilizzo come mangime. L'argomento è stato trattato in dettaglio nell'articolo dello stesso autore Bioraffinerie di lenticchia d'acqua.
  • Fitodepurazione. Questa tecnica consiste nel creare aree di suolo convenientemente impermeabilizzato, riempito con ghiaia, sabbia ed eventualmente anche zeolite, allagate con il digestato liquido da trattare, solitamente a valle di un trattamento previo, scelto fra quelli illustrati precedentemente. Sul substrato di ghiaia vengono coltivate piante palustri, le quali assorbono in parte l'azoto, mentre un'altra parte viene denitrificata dalla flora batterica che si andrà a formare con il tempo. E' un sistema in grado di trattare fino a 6 tonnellate di N per ettaro, con una produzione di biomassa - da 20 a 30 tonnellate di SS/ha - eventualmente utilizzabile come substrato nel digestore o come strutturante per il compostaggio.
    Una esperienza concreta di questa tecnica, condotta da Veneto agricoltura e Università di Padova, è stata trattata dallo stesso autore nell'articolo L'abbattimento dei nitrati agricoli mediante fitodepurazione.

Vasca di aereazione in un impianto nitro-denitro
Foto 2: Vasca di aereazione in un impianto nitro-denitro (Sistema OptimEDAR per il contenimento energetico negli impianti di depurazione)
(Foto cortesia di Adasa Sistemas)


Conclusioni

Contrariamente a quanto affermano i portatori di interesse, industriali o universitari, non esiste una tecnologia di denitrificazione dei digestati agricoli applicabile a tutti i casi. Ognuna ha le sue peculiarità, le quali in alcune condizioni possono essere pregi o difetti. In linee generali, possiamo dire che i processi fisico-chimici occupano meno spazio rispetto a quelli biologici, ma sono in genere energivori e talvolta consumano dei reattivi. In definitiva, sono processi conservativi perché spostano l'azoto o lo confinano, ma non lo eliminano. Invece, i processi biologici sono riduttivi perché convertono l'azoto ammoniacale in azoto atmosferico libero e/o in azoto organico, richiedono consumi di energia e di reattivi variabili da un sistema all'altro, e comportano sempre una maggiore occupazione di terreno, dell'ordine di qualche ettaro.

La soluzione ottimale per ogni impianto di biogas o biometano va dunque valutata caso per caso - da un esperto indipendente - in funzione delle caratteristiche del digestato (viscosità, tenore di N, solidi volatili, solidi fibrosi o comunque macroscopici), della tipologia di impianto (disponibilità o meno di calore residuo dal cogeneratore), della disponibilità di terreno e del mercato potenziale dei concimi sottoprodotti del processo.

Una sola cosa è chiara: la denitrificazione dei digestati è sempre un costo per l'impianto, perché il fertilizzante sottoprodotto del processo contiene prevalentemente azoto, quindi il suo valore di mercato è inferiore a quello dei fertilizzanti completi, e non basta a coprire tutti i costi operativi del sistema di denitrificazione.