Negli ultimi dieci anni il consumo di pellet di biomassa è cresciuto esponenzialmente, con l'Inghilterra quale primo consumatore (il 26% del consumo mondiale) seguita da Italia, Germania, Danimarca e Stati Uniti, ciascuno con un 7% (dati Fao al 31/12/2016).
I motivi di tale successo sono molteplici: la necessità di sostituire i combustibili fossili, sia per questioni di prezzo e sia di riduzione dei gas ad effetto serra; la maggiore densità di energia del pellet rispetto alle biomasse allo stato grezzo e quindi i minori costi di trasporto; la facilità di movimentazione, risultante dalla capacità dei pellet di "scorrere" quasi come un combustibile liquido; e infine la granulometria molto precisa, che consente una combustione più stabile e un migliore controllo delle emissioni.

I pellet sono uno dei vari tipi di biocombustibili solidi, definiti genericamente come "combustibili prodotti da biomassa". Questa frase, apparentemente semplice, ha un significato più profondo in quanto, per la maggior parte delle persone, i termini quali "pellet" o "cippato" si identificano con i concetti ecologici di "verde, naturale, pulito" piuttosto che con "combustibile" e questo è uno degli errori più comuni che porta spesso a sottovalutare importanti aspetti, quali ad esempio la sicurezza d'uso e le prestazioni ambientali.
Un'altra implicazione di questa frase è rappresentata dal fatto che il termine "biomassa" si riferisce alla materia prima - l'intera pianta - mentre i "biocombustibili solidi" sono i pellet, i ciocchi di legno, il cippato, cioè dei prodotti ottenuti da una trasformazione della biomassa iniziale e questo implica la possibilità di standardizzare il prodotto finito.

Nel caso specifico dei pellet e delle bricchette, tale trasformazione consiste nella semplice pressatura della biomassa con mezzi meccanici, essendo la differenza fra entrambi i prodotti il diametro: minore di 25 mm per il pellet e maggiore di 25 mm per le bricchette. La standardizzazione è fondamentale in quanto stabilisce non solo i parametri dimensionali ma anche le diverse qualità di prodotto e, di conseguenza, i parametri di controllo a tutela del compratore. L'importanza economica dei pellet si deduce dalla quantità di norme che ne regolano la produzione ed il controllo qualità. Le classi di qualità dei pellet da biomassa solida sono definite da norme internazionali, recepite in ambito nazionale come UNI EN ISO 17225-2 (pellet legnoso) e UNI EN ISO 17225-6 (pellet non legnoso, al quale abbiamo già dedicato l'articolo Pellet di biomasse erbacee).

I valori dei parametri definiti nelle suddette norme non tengono però conto dei pellet costituiti da alcune tipologie di biomasse residuali agricole di interesse nazionale. In linea di massima, tali residui agricoli si possono classificare come: biomassa legnosa di origine forestale e agricola, biomassa erbacea di origine agricola, biomassa da frutti e semi di origine agricola o da lavorazioni agroindustriali e infine biomassa acquatica. Alcune biomasse di interesse nazionale sono, ad esempio: tralci di viti, nocciolino di oliva, gusci di nocciola e semi di albicocca e pesca.

Pertanto, è allo studio (marzo 2018) la definizione di due nuove classi di qualità integrative, specificamente adatte al settore agroalimentare italiano:
  • Classe I4: integrativa alla UNI EN ISO 17225-2
  • Classe C e D: integrativa alla UNI EN ISO 17225-6

I pellet delle suddette classi saranno prevalentemente destinati ad impianti di media-grande potenza termica o comunque a dispositivi provvisti di sistemi di controllo della combustione e di abbattimento delle emissioni a camino che consentono il rispetto dei limiti di legge. Il motivo è che i pellet prodotti con biomasse agricole residuali, in particolare quelle non legnose, contengono di solito elevate concentrazioni di cloro, zolfo e ceneri dette bassofondenti - a basso punto di fusione, quindi potenzialmente dannose per le griglie e parti mobili della camera di combustione.

La combustione di tali biomasse richiede l'utilizzo di additivi (ad esempio calce e ossido di magnesio) durante la produzione dei pellet, con lo scopo di aumentare il punto di fusione delle ceneri e/o neutralizzare i gas acidi formatisi dal cloro e dallo zolfo. Nonostante le complicazioni tecniche che comporta l'utilizzo di pellet prodotti con biomasse residuali agricole, il loro basso costo e larga disponibilità li rende potenzialmente molto attraenti per impianti che richiedono grandi quantità di energia termica, quali ad esempio essiccatoi di cereali, foraggi, legna o tabacco.
 

Le opportunità per gli agricoltori italiani

La vendita di biomassa è in genere marginale nel complesso dei ricavi di una azienda agricola, cioè serve piuttosto a recuperare i costi vivi che a produrre reddito. A meno che non si tratti di biomassa da colture dedicate, comunque sono sempre i sottoprodotti dell'attività agricola principale e come tali si caratterizzano dunque per il prezzo molto basso, che copre appena il costo di raccolta e stoccaggio. Si è dunque tentati di credere che la trasformazione in pellet nella stessa azienda agricola possa rappresentare un modo di dare valore aggiunto a tali sottoprodotti, ma andrebbero valutati con molta cautela tre aspetti fondamentali:
  • Il costo d'investimento in una mini-pelletatrice. Esistono impianti azionati da motore elettrico o dalla presa di forza del trattore.
  • Il costo di esercizio, che non si limita solo alla energia elettrica o al gasolio consumati per la produzione dei pellet. Va considerato il costo periodico di sostituzione delle trafile, perché molte biomasse vegetali - ad esempio canne, paglia, pula di riso - contengono silice, che è abrasiva e consuma le parti soggette ad usura. Alcuni fabbricanti offrono dunque mini-pellettatrici a prezzi molto attraenti, ma poi la amara sorpresa per il gestore è l'elevato costo dei ricambi e la poca durata dei pezzi a contatto con la biomassa.
  • I potenziali acquirenti nel raggio di 50 km. I pellet di biomassa residuale non sono adatti per uso civile - ovverosia riscaldamento domestico e cottura di cibi in forni a legna - quindi è necessario accertarsi della presenza di aziende potenzialmente consumatrici vicine all'azienda agricola, e possibilmente sottoscrivere contratti di fornitura prima di investire in un impianto.
     
Successivamente alle premesse introdotte, ora proponiamo ai nostri lettori una lista di biomasse potenzialmente pellettizzabili, utile per quando la norma in studio verrà definitivamente approvata. La lista non è esaustiva e non suppone l'obbligatorietà di produrre i pellet con una unica biomassa: potranno infatti essere il prodotto di miscele, per esempio tra biomassa erbacea e legnosa, purché la loro composizione venga dichiarata.
 
  • Erba medica, trifoglio, foraggi, graminacee miste. Se non utilizzati per alimentazione animale, o destinati a digestione anaerobica, i pellet prodotti con tali biomasse trovano impiego come combustibile, ma si caratterizzano per i contenuti di ceneri fra i più alti presenti nelle biomasse vegetali (dall'8% all'11% della sostanza secca) e alti tenori di azoto (1% a 2% della s.s.) di zolfo (0,01 a 0,15 % della s.s.) e di cloro (0,1% a 1% della s.s.). Il loro Pci (Potere calorifico inferiore) va dai 16 ai 17 MJ/kg s.s.
  • Stocchi di mais. Il loro contenuto di cenere va dal 5 al 9%, il Pci è pari a 17 MJ/kg s.s., i livelli di cloro zolfo e azoto sono inferiori ai precedenti.
  • Stocchi di girasole. Abbastanza simili agli stocchi di mais, hanno un tenore di cenere leggermente più alto, compreso fra 9% e 14%, e il Pci pari a 16 MJ/k s.s.
  • Potature di viti, frutteti, espianti, ramaglie. Sono tutte biomasse legnose, quindi con contenuto di cenere minore rispetto alle biomasse erbacee (dal 2% al 5% s.s.) bassi tenori di azoto (0,3 % a 1& s.s.) zolfo (0,01 % a 0,04% s.s.) e cloro (0,01 % a 0,1% s.s.). Il loro Pci si attesta nel range tra 17,5 e 19 MJ/kg s.s.
  • Sfalci di canne. Sono le tipiche biomasse risultanti dalla pulizia dei fossati e canali di scolo, costituite perlopiù da canna palustre (P. australis) canna comune (A. donax) e coda di gatto (T. latifoglia). Le caratteristiche di tali biomasse dipendono dalle proporzioni fra le diverse specie vegetali, inoltre il contenuto di cenere può variare a seconda dalle caratteristiche pedoclimatiche locali. A titolo d'esempio, su campioni di Arundo donax raccolti in Spagna l'autore ha riscontrato i seguenti valori di: Pci pari a 17,5 MJ/kg s.s., ceneri 3,66% s.s., azoto 0,38% s.s., zolfo 0,11% s.s. e cloro 0,14% s.s..
  • Sansa disoliata. E' un sottoprodotto solitamente utilizzato negli impianti di biogas. La sua granulometria pulverulenta ne limita l'uso diretto come combustibile, a meno che non si installi un sistema di combustione ad hoc, quindi è un candidato interessante per la produzione di pellet, avente un Pci pari a 17,6 MJ/kg ss. e un basso tenore di zolfo (0,05% a 0,1%).
  • Pula di riso. Ha un Pci attorno a 14 MJ/kg s.s., ed è molto interessante perché costituisce il 20% del grano di riso, quindi si tratta di una biomassa molto abbondante. Il suo contenuto di cenere è molto alto però, compreso fra 16% e 25 % s.s. Il tenore di azoto è compreso fra 0,3% e 1,9% s.s., lo zolfo varia da 0,01% a 0,2% s.s. e il cloro è nel range da 0% a 0,12% s.s.


Conclusioni

Le biomasse residue agricole si possono utilizzare per produrre pellet combustibili industriali, solitamente inadatti alle stufe e caminetti domestici. Esiste in commercio una discreta offerta di mini-impianti di pelletizzazione azionati da motori elettrici oppure dalla presa di forza del trattore, per cui la produzione di pellet industriale a partire da residui agroalimentari può essere una opportunità di reddito integrativo dell'azienda agricola.

La condizione per giustificare un investimento nei macchinari, ed i costi operativi degli stessi (consumo energetico, usura delle parti a contatto con la biomassa) è che esistano aziende dotate di impianti in grado di consumare tali pellet entro un raggio di 50 km, altrimenti il costo di trasporto annullerebbe il guadagno. Dal momento che molte biomasse di interesse nazionale non sono incluse nelle norme internazionali sulla qualità dei pellet recepite dall'UNI, si sta lavorando per definirne nuove classi di qualità a livello di produzione industriale.