Si dice che l'uomo sia un animale abitudinario. Tale affermazione è ovvia per quanto riguarda l'attaccamento della maggior parte delle persone alla propria routine, ma è ancora più valida quando ci sono in gioco interessi multimiliardari e il copione è sempre lo stesso: commistione fra politica e grandi capitali.
In questo contesto, pare che la tecnologia giochi un ruolo preponderante: più contorta e complicata è e più sembrano giustificabili le sovvenzioni statali a progetti di ricerca dalla dubbiosa utilità o convenienza, puntualmente svolti da multinazionali che, in linea di massima, potrebbero benissimo portarli a termine con i propri mezzi.
In altre occasioni abbiamo già segnalato il doloroso spreco di risorse pubbliche nella ricerca di tecnologie palesemente inutili, i cui risultati si potevano prevedere in anticipo con semplici conti e un po' di senso critico (si vedano ad esempio I biocarburanti da alghe in Europa e La digestione anaerobica ad alta pressione).

Vediamo brevemente alcune tecnologie in sviluppo che, nel bene o nel male, potrebbero incidere sull'economia delle aziende agricole, in un futuro non troppo lontano.
 

Le serre arricchite con CO2 catturata dall'atmosfera

Vicino a Zurigo funziona già un impianto, sviluppato dalla Climeworks, capace di catturare la CO2 dall'atmosfera e di inviarla ad una serra per la coltivazione di pomodori e cetrioli (Foto di apertura dell'articolo).
Secondo la stampa svizzera l'impianto è in grado di catturare 900 tonnellate/anno di CO2 atmosferica, una quantità che aumenta del 20% la produttività della serra.

Nel modo in cui viene raccontato dalla stampa generalista e dai propri ideatori, sembrerebbe la tecnologia che salverà il mondo dal riscaldamento globale.
Proviamo a fare una semplice analisi per capire quanto sia veramente attendibile la tesi:
  • La concentrazione media di CO2 nell'atmosfera è di circa 400 ppm (per la precisione, 407 parti per milione, ovvero 400 g di CO2 per tonnellata di aria). Ciò significa che, per estrarre una tonnellata di CO2, è necessario processare 2.500 tonnellate di aria. Poiché la densità media dell'aria è pari a 1,24 kg/m3, la produzione di mille kg di CO2 richiederebbe di forzare 2.016.129 m3 di aria attraverso i filtri del congegno.
    Allora una domanda sorge spontanea: non sarebbe più facile recuperare la CO2 da un qualsiasi impianto di combustione, da un impianto di biogas o, perfino, da un allevamento di suini o polli? Nel primo caso la concentrazione di CO2 è di circa l'8% mentre nel secondo caso di oltre il 40%. Più difficile stabilire la concentrazione di CO2 nell'aria di una stalla, ma da misure realizzate dall'autore possiamo stimarla in oltre mille ppm, molto bassa ma comunque sufficiente a dimezzare il volume di aria da filtrare.
    Il concetto svizzero appare ancora più assurdo se osserviamo la Figura 1: l'impianto pilota (cerchio rosso) è montato sul tetto di un impianto di combustione di biomasse, ma prende la CO2 dall'aria anziché dai fumi! Un particolare che la ditta costruttrice non menziona, e che possiamo dedurre da un articolo della stampa svizzera che, in modo acritico e abbastanza campanilista, lo presenta come "il turbo per i pomodori che salverà il clima".
 
Vista d’insieme dell’impianto, dalla serra di coltivazione dei pomodori
Figura 1: Vista d'insieme dell'impianto, dalla serra di coltivazione dei pomodori
(Fonte: Blick.ch)
 
  • La Climeworks non fornisce dati sulla caduta di pressione nel filtro (in generale il loro sito non fornisce alcun dato tecnico!). Possiamo comunque fare una stima dell'energia elettrica necessaria per il loro processo in base a dati "da manuale". Assumendo una caduta di pressione ragionevole nel filtro, pari a 200 Pa, e un rendimento ottimistico del ventilatore pari al 60%, un impianto come quello svizzero, capace di produrre 100 kg di CO2/ora, richiederebbe una potenza elettrica pari a 18,7 kW.
    Le emissioni di CO2, direttamente imputabili alla generazione elettrica in Svizzera andrebbero da 13 a 181,5 g CO2 eq./kW (Fonte ufficiale). In altri termini, la cattura di 100 kg di CO2 comporta un'emissione massima pari a 3,39 kg, e fin qui il bilancio sembrerebbe positivo. Molto più difficile invece, è valutare le emissioni di CO2 associate al processo produttivo dei componenti dell'impianto stesso, presumibilmente realizzati in acciaio (con emissioni associate pari a 0,41 ton CO2/ton acciaio prodotto, secondo quanto riportato qui).
  • Estrarre la CO2 cumulatasi nel filtro comporterebbe però un consumo energetico non precisato.
    Il sito del fabbricante, in modo piuttosto vago, spiega che l'impianto utilizza del "calore residuo da un impianto industriale a temperatura superiore ai 100 °C". Tuttavia, non specifica da quale fonte energetica provenga il menzionato calore e imputa nulle le sue emissioni semplicemente perché trattasi di "calore residuo".
    Da una delle foto nell'articolo di Blick.ch, però, sembrerebbe che il calore provenga da un impianto di combustione di biomasse o rifiuti. Viene dunque spontaneo chiedersi quale sia la replicabilità del progetto: quante aziende agricole di ortaggi in serra potrebbero beneficiarsi della prossimità di un impianto industriale dal quale recuperare "calore residuo"? E se l'impianto industriale utilizzasse gas naturale come vettore primario - come la grande maggioranza di impianti industriali - o qualsiasi altro combustibile, allora che senso avrebbe catturare la CO2 dall'aria anziché direttamente dalle fonti di emissione?
  • Dalla stessa pagina web della Climeworks, apprendiamo che il filtro è in materiale poroso imbevuto in amine. Dato che queste ultime sono tossiche e si degradano con il tempo, un'analisi completa richiederebbe di calcolare anche gli effetti della tossicità sull'ambiente, le emissioni indotte dalla produzione e lo smaltimento delle amine esauste.
  • Infine, possiamo affermare che il ciclo di vita - proposto dagli svizzeri - non comporterebbe alcun vantaggio ambientale: per quanto il bilancio fra la CO2 catturata dall'atmosfera e quella emessa dal processo possa sembrare positivo, l'utilizzazione della CO2 per produrre ortaggi non determinerebbe una sottrazione netta di gas serra come desiderato, perché gli ortaggi ridiventerebbero presto CO2, una volta consumati e digeriti dalle persone. Tanto varrebbe, allora, bruciare le biomasse residue, lavare i fumi e convogliare il gas ricco di CO2 nelle serre: si otterrebbe così lo stesso effetto del sistema ipertecnologico svizzero, ma in questo caso con un impianto semplicemente realizzabile, quasi a livello di "fai da te".
 

Carburanti sintetici a partire da CO2 e acqua catturata dall'atmosfera

Il progetto Kopernikus, finanziato dal Governo tedesco con 30 M€, ha lo scopo di sviluppare una tecnologia capace di produrre carburanti liquidi utilizzando gli eccedenti di energia rinnovabile. La tecnologia è chiamata Power to X (abbreviato come P2X). Concettualmente il sistema P2X è simile al sistema P2G, già descritto in un altro articolo di questa colonna (P2G, la nuova frontiera delle agroenergie).
La differenza tra i due sistemi risiede nella capacità del P2G di generare un reddito addizionale per le aziende agricole dotate di impianto di biogas, o in grado di dotarsene; il sistema P2X mira invece a favorire solo le (grandi) industrie: automobilistica, chimica, elettromeccanica e petroliera, ma esclude l'industria agricola dal business energetico perpetuando il modello di mobilità basato sul motore a combustione interna. Una prova a suffragio di questa deduzione è la composizione del gruppo di ricerca: fra i numerosi partner del progetto Kopernikus, spiccano le multinazionali: Audi/VW, Siemens, Shell, Linde, Ford, BASF, Chemieanlagebau Chemnitz… ma nemmeno una azienda agricola o agroalimentare.

Dall'altro lato dell'Atlantico, invece, bolle un'altra pentola con la stessa minestra: secondo un articolo dell'Università di Yale, esiste un crescente interesse da parte degli investitori nel settore della cattura di CO2 atmosferica, con in testa Bill Gates in persona, il quale avrebbe investito nella tecnologia della Carbon engineering, molto simile a quella proposta nel progetto Kopernikus.
Inoltre, l'articolo dell'Università di Yale riporta l'esistenza di altre startup con scopi diversi: dalla produzione di plastiche derivate a partire dai gas CO2 e CH4, captati presumibilmente dalle discariche, alla produzione di "alberi artificiali" da "piantare" nelle città e infine del cemento da costruzione che indurisce assorbendo CO2 atmosferica. Nei confronti di quest'ultima possiamo precisare che anche il normalissimo cemento Portland, le malte e la calce spenta assorbono CO2. L'idrossido di calcio (calce spenta) presente nel cemento o le malte fresche reagisce con l'anidride carbonica atmosferica, formando carbonato di calcio e acqua. La capacità di un calcestruzzo di fissare la CO2 è proporzionale all'alcalinità presente nella sua pasta cementizia e quindi dipende linearmente dalle quantità di cemento e calce utilizzate. Comunque, le produzioni di cemento e calce emettono molta più CO2 di quanto lo stesso materiale sia poi capace di assorbire dall'atmosfera durante il suo invecchiamento.

Possiamo con tutta tranquillità affermare che, per quanto riguarda il bilancio di CO2 dei materiali da costruzione (si veda, dello stesso autore, questo articolo), le tradizionali malte di calce a paglia o i più moderni biomattoni di calce e canapulo risultano fra i materiali più ecocompatibili. Inoltre, essi sono alla portata di qualsiasi impresa di costruzione e rappresentano una occasione per valorizzare gli scarti agricoli, senza necessità di dover ricorrere alle "alte tecnologie" promosse dalle università statunitensi o le startup della Silicon Valley.
 

Conclusioni

A quanto pare la comunità scientifica è divisa sul tema della cattura e conversione della CO2 atmosferica.
Da una parte ci sono rinomate università e centri di ricerca che sostengono la tecnologia, presumibilmente poiché traggono profitto dai contributi alla ricerca pubblici e privati, a prescindere dalla reale utilità o sostenibilità dei processi tecnologici in studio. Dall'altra parte ci sono ricercatori di università, altrettanto prestigiosi, che bollano come sciocca l'idea, o addirittura "moralmente pericolosa", in quanto darebbe ai politici una scusa per tornare a liberalizzare le emissioni climalteranti e nel contempo bruciare ingenti cifre di capitali pubblici in progetti con obiettivi che si potrebbero raggiungere in modo più sostenibile.

I dubbi sono sufficientemente fondati da aver meritato un articolo sull'argomento nella rivista Science. Nel nostro piccolo, la cosa che di più ci dovrebbe preoccupare è: si spingeranno i politici fino al punto di togliere gli attuali contributi alle bioenergie, favorendo le multinazionali dell'industria pesante?