Esiste una tendenza molto diffusa nel mondo accademico, nelle istituzioni pubbliche e, perfino, in una fetta del mondo industriale, a considerare "la letteratura" - cioè le ricerche scientifiche pubblicate da giornali esteri più o meno prestigiosi - come un compendio di verità sacrosante e indiscutibili.  In diversi articoli di questa colonna, l'autore ha dimostrato come alcune delle "evidenze scientifiche", promosse da ricercatori e operatori economici del mondo del biogas, non reggono l'analisi logica con il metodo cartesiano (si vedano Lo schiumometro per gli impianti di biogas, La conducibilità elettrica è inaffidabile per la gestione dell'impianto di biogasRidimensionando l'importanza del test Fos/Tac) e nemmeno le prove sperimentali condotte in condizioni più o meno "realistiche".

Non mettiamo in questione la buona fede dei ricercatori, ma piuttosto il sistema del peer review, che talvolta crea clientelismo, fra revisori e redattori, e i papers a pagamento, che rendono difficile discernere fra la ricerca di qualità e quella autoreferenziata o sponsorizzata. Già nel 1953 il Premio Nobel di Chimica Irving Langmuir aveva segnalato il pericolo della "scienza patologica", cioè uno stato psicologico nel quale uno scienziato incoscientemente si scosta dal metodo scientifico e diventa talmente assorto nella sua ricerca, da diventare incapace di discernere obiettivamente fra realtà sperimentale e convinzione personale.
Un classico esempio di scienza patologica è la ricerca sulla "fusione a freddo". Purtroppo la scienza patologica non si limita allo scienziato isolato, che confonde la realtà con i suoi modelli matematici: talvolta è l'intera comunità scientifica che condivide concezioni false e finisce per isolare lo scienziato, e anni dopo si comprende come invece quest'ultimo avesse ragione. Caso emblematico quello del fisico austriaco Ludwig Boltzmann, suicidatosi perché le sue teorie sulla termodinamica e la meccanica statistica, oggi alla base della moderna fisica quantica, erano sistematicamente derise dai fisici coevi (Boltzmann, il genio del disordine di Giuseppe Mussardo).

In questo articolo proponiamo ai nostri lettori un'analisi obiettiva di una tecnologia "di moda" nel piccolo mondo della ricerca sulla digestione anaerobica: la digestione ad alta pressione autogenerativa (Autogenerative high pressure digestion, Ahpd).
 

Cos'è la Ahpd

Nelle università centroeuropee che ricercano sulla digestione anaerobica - e anche in alcune università e aziende italiane - prevale la scuola di pensiero secondo la quale le prove biologiche vanno condotte in reattori perfettamente chiusi, misurando la quantità di biogas prodotto mediante l'aumento di pressione all'interno di essi (si veda Focus Critico sulla Norma VDI4630/2014, parte I e parte II) e determinando, in un secondo tempo, la composizione del biogas mediante gascromatografia o altri metodi analitici.

La tecnologia Ahpd non è altro che un tentativo di ingigantire ciò che i ricercatori fanno ogni giorno nei loro laboratori, aumentando contemporaneamente le dimensioni e la pressione di lavoro dei reattori, fino agli estremi, con lo scopo di renderli atti ad usi industriali. Il concetto stesso di un digestore industriale che lavori alla pressione di 100 atmosfere ha già un forte odore di "scienza patologica": anziché adattare un modello di studio (la prova batch) alla realtà (la digestione in un impianto di biogas, solitamente in continuo e a pressione quasi atmosferica) i fautori di tale tecnologia pretendono adattare il mercato del biogas al modello che loro stessi conoscono meglio.

L'idea pare sia nata in Olanda, nella prestigiosa Università di Wagenigen, con la tesi del dottore Ralph Lindeboom Autogenerative high pressure digestion, Biogas production and upgrading in a single step. Dalla sua pubblicazione nel 2014, l'argomento è diventato "di moda", ripreso da diversi altri ricercatori e oggetto di papers pubblicati in giornali scientifici e convegni.
Nel frattempo è nata una startup che dovrebbe commercializzare l'invenzione la quale ha pure ricevuto un cospicuo contributo di 503.290 euro dal Governo olandese. La documentazione è scarsa - addirittura in fiammingo - e, a quanto pare, non è stato ancora costruito alcun impianto a scala reale. Il sistema viene presentato in un position paper come una specie di panacea, sia per la produzione di biometano in un solo stadio, come abbinamento al sistema P2G (si veda P2G, la nuova frontiera della agroenergie) e, infine, come mezzo "a energia gratis" per l'osmosi inversa delle acque fognarie e fanghi anaerobici.
 

Vantaggi teorici, mezze verità e contraddizioni sul sistema Ahpd

L'idea di digerire materia organica in reattori anaerobici ad alta pressione, nasce dalla sperimentazione durante le prove batch, realizzate con il metodo barometrico, dalle quali emerge che la percentuale di metano è solitamente più alta del 60% assunto convenzionalmente, talvolta dell'ordine del 90%.
Il motivo apparente è che, per una legge fisica nota come Legge di Henry, i gas si dissolvono nei liquidi in modo direttamente proporzionale alla pressione, inversamente proporzionale alla temperatura, con una costante che dipende dal gas. Il biogas è composto fondamentalmente da metano (CH4) e diossido di carbonio (CO2), conseguentemente, il sillogismo con il quale i ricercatori olandesi giustificano la loro ricerca è:
  • La costante di dissoluzione in acqua della CO2 è circa venti volte quella del CH4 (vero).
  • Il medio nel quale avviene la digestione anaerobica è composto per il 90-95% da acqua (vero).
  • Quindi, se costruiamo un digestore sufficientemente robusto, lo chiudiamo ermeticamente e lasciamo che il gas prodotto dalla fermentazione anaerobica aumenti la pressione fino a valori molto alti, allora possiamo solubilizzare la CO2 nello stesso digestore, arrivando così ad ottenere biogas con una qualità tale da considerarlo "biometano" adeguato per essere iniettato in rete (max. 6% di CO2 in Olanda, ma da noi non si può superare il 3%) senza la necessità di installare un sistema di upgrading.
     
Come abbiamo già sottolineato in altri articoli, la conclusione dell'ultimo punto può essere vera solo se i primi due presupposti sono veri, ma non necessariamente sarà sempre vera. In realtà, sebbene sia vero che il digestato è composto da acqua per più del 90%, è altrettanto vero che la frazione restante non si comporta come "inerte" nei confronti della CO2. I sali disciolti, l'ammoniaca, e perfino le proteine che compongono i batteri vivi nel digestato, tutti reagiscono in maggiore o minore misura con la CO2, anche a pressione ambiente. Quindi non è vero che un digestore capace di resistere alle alte pressioni sia il migliore modo per ottenere biogas con alto tenore di metano, senza dover passare per uno stadio di upgrading.

La Figura 1 dimostra la nostra affermazione con una esperienza realizzata all'Università di Lund (Svezia) utilizzando il sistema Ampts II, privo di filtri di cattura della CO2, cioè misurando il volume totale di biogas prodotto, e la sua composizione mediante un gascromatografo.
Si osserva come la percentuale di metano arriva al 70% circa, quando teoricamente dovrebbe essere attorno al 52%, perché la cellulosa è un polisaccaride.

Grafico andamento della percentuale di metano in una prova di digestione anaerobica di cellulosa con reattori batch, realizzata a pressione quasi ambiente
Figura 1: Andamento della percentuale di metano in una prova di digestione anaerobica di cellulosa con reattori batch, realizzata a pressione quasi ambiente.
Si ringrazia il dottore Sten Strömberg per i dati

La prima contraddizione che sorge dal position paper dalla ditta Bareau riguarda la digestione in termofilia a 50 °C. Poiché, secondo la Legge di Henry, la solubilità della CO2 diminuisce con l'aumentare della temperatura, la scelta di un processo termofilo andrebbe a vanificare il potenziale vantaggio della digestione ad alta pressione.

Nelle conclusioni della tesi dottorale di R. Lindeboom, ma anche in altre pubblicazioni, ad esempio Autogenerative high pressure digestion: Future potentials and constraints (R.E.F. Lindeboom, C.E. Zagt, S.G. Shin, J. Weijma, C.M. Plugge e J.B. van Lier) vengono presentati come "prova" casi in cui la digestione anaerobica, in reattori ad alta pressione, ha prodotto biometano con oltre l'85% di purezza.
Ma se prestiamo attenzione ai substrati utilizzati dagli olandesi, in un caso la prova è stata fatta con acetato di sodio, e in un altro caso, aggiungendo un minerale chiamato wollastonite. Ancora una volta, ci viene il sospetto di essere di fronte ad un caso di scienza patologica.
La prova: si osservi la Figura 2, che mostra la composizione del biogas ottenuta dalla digestione di acetato di sodio a pressione quasi ambiente.

Grafico andamento della percentuale di metano in una prova di digestione anaerobica di acetato di sodio con reattori batch, realizzata a pressione quasi ambiente
Figura 2: Andamento della percentuale di metano in una prova di digestione anaerobica di acetato di sodio con reattori batch, realizzata a pressione quasi ambiente.
Si ringrazia il dottore Sten Strömberg per i dati

Si osservi come, anche a pressione ambiente, la percentuale di CH4 è comunque vicina al 90% al quarto giorno (momento di digestione totale dell'acetato). La lieve diminuzione del tenore di CH4 dopo il quarto giorno è causata dalla produzione di biogas - e quindi di CO2 - endogena dell'inoculo. Il perché di tale comportamento è facile da spiegare: la degradazione dell'acetato di sodio produce 50% CO2 e 50% CH4; la CO2 reagisce con l'acqua nel digestore e poi con il sodio, per cui rimane automaticamente catturata come carbonato di sodio disciolto nell'inoculo, e non va a sommarsi alla CO2 contenuta nel biogas. Se non ci fosse produzione endogena di biogas da parte dell'inoculo stesso, la percentuale di metano nel biogas sarebbe teoricamente il 100%.
I ricercatori centroeuropei sembrano talmente concentrati, nella loro propria metodologia di prova, che ignorano le regole elementari della stechiometria, imputando alla alta pressione dei loro esperimenti un fenomeno di cattura della CO2 causato da semplici reazioni chimiche note da oltre un secolo.

Per quanto riguarda l'aggiunta di wollastonite al digestore, l'autore non ha dati di prima mano su quali risultati darebbe nel caso venisse utilizzata in una prova batch a pressione ambiente, ma trattandosi di un minerale che aggiunge alcalinità (cioè tende a catturare la CO2 sotto forma di carbonati o bicarbonati), è molto probabile che i risultati sarebbero simili a quelli della digestione dell'acetato di sodio.
Quanto meno possiamo scartare senza ombra di dubbio l'affermazione dei ricercatori di Wagenigen, che sostengono che tale tecnica sia "promettente per lo sviluppo commerciale della digestione anaerobica ad alta pressione".
Una breve ricerca in internet mostra che il prezzo della wollastonite oscilla fra 150 e 400 euro/tonnellata, ex works Cina. Un semplice calcolo stechiometrico, con i dati riportati dalla menzionata tesi dottorale, ci consente di affermare che servono 5,3 chilogrammi di wollastonite per catturare 1 m3 di CO2, indipendentemente dalla pressione alla quale si svolge la digestione anaerobica.
Lasciamo al lettore calcolare quanto costerebbe realizzare l'upgrading a biometano mediante l'aggiunta di wollastonite in un impianto e non in un "giocattolo" da laboratorio…
 

Conclusione

Anche agli scienziati capita talvolta di perdere di vista il bosco, perché troppo concentrati a guardare un singolo albero. Anche i papers, pubblicati da università prestigiose in non meno prestigiosi giornali scientifici, vanno sempre sottoposti alla verifica cartesiana. Specialmente quando le ricerche hanno ricevuto cospicui finanziamenti pubblici, che devono essere giustificati in qualche modo davanti a enti e investitori.
Non serve essere scienziati o ingegneri per capire che, se un impianto di biogas funzionante a pressione ambiente costa quanto sappiamo, l'idea di costruirlo per funzionare a 20 bar, o perfino 100 bar - come postulato dai ricercatori dell'Università di Hohenheim - non solo pone seri problemi di sicurezza nell'esercizio, ma anche non ha alcuna giustificazione economica.
Tante volte basta un po' di buon senso. O un po' di sale in zucca, per dirlo in modo poco scientifico e per niente patologico.