Lenticchia d’acqua è il nome volgare dato genericamente alle piante di diverse specie appartenenti al genere delle Lemnacee (dal latino scientifico Lemnaceae). Queste sono piante perenni di piccola taglia, dalla forma simile ad una lenticchia di pochi mm di diametro, galleggiano su acque dolci, sono costituite da piccoli germogli appiattiti globosi isolati, o riuniti insieme. 
La famiglia comprende tre generi e diciassette specie diffuse in tutto il mondo. In Italia si possono trovare le specie Lemna minor, Lemna trisulca, Lemna gibba; e Spirodela polyrrhiza. Le Lemnacee si trovano fra le piante più semplici conosciute e sono diffuse in tutti i fossati, stagni e acque a lento scorrimento. Si caratterizzano per la spiccata capacità di assorbire azoto dall’acqua e carbonio dall’atmosfera, raddoppiando la loro biomassa ogni tre giorni quando le condizioni climatiche sono favorevoli.
Secondo uno studio condotto dalla Fao (Food and Agriculture Organization) la composizione della biomassa di Lemna minor è quasi identica a quella della soia, ciò spiega il perché sia molto gradita dalle anatre. Non è un caso che in inglese tale pianta è conosciuta con il nome di duckweed (letteralmente, erba dell’anatra). In Nuova Zelanda, Australia e nei paesi dell’Asia meridionale la lenticchia d’acqua viene frequentemente impiegata come depuratore biologico dei reflui agricoli, mentre in Cina, Vietnam e Thailandia viene largamente impiegata come mangime per anatre, polli e talvolta maiali.
Negli Stati Uniti, dopo l'insuccesso della Nasa nell'utilizzarla come biofiltro e fonte di alimenti per gli astronauti di una ipotetica missione su Marte, gli sforzi attuali della ricerca e l'industria si concentrano nella produzione di carburanti  a base di Lemnacee.
Come è consueto nel mondo industriale americano, l'approccio è di pura “forza bruta tecnologica”, ovverosia, il ricorso alle soluzioni tecnologicamente (ed economicamente) più intensive per risolvere problemi ingegneristici per i quali esistono già soluzioni più semplici ma non coperte da brevetti.

Annoveriamo fra le varie fonti consultate un progetto proposto da un imprenditore italo-americano di nome Sam Licciardello, caratterizzato da complicati sistemi di pirogassificazione per estrarre metano;  la mappatura del genoma della Lemna minor presso il Waksman Institute of Microbiology della Rutgers University di New Jersey, avente  lo scopo di facilitare l'ulteriore manipolazione genetica per aumentare il contenuto di zuccheri della pianta e produrre così bioetanolo; e infine diversi progetti  del tipo “business as usual”, mirati al semplice trattamento terziario delle acque fognarie, ma camuffati da ricerca “Hi Tech”, forse per renderli appetibili a investitori o finanziatori pubblici.
Dalla nostra ricerca in internet, la maggior parte dei progetti attualmente in corso rassomiglia molto, per impostazione ed esagerazione del potenziale, i progetti che da alcuni anni sono  presentati indistintamente da start-up e multinazionali. Tutti i suddetti progetti  promettono miracolose rese dalla coltivazione di microalghe o di Lemnacee.

Se da una parte è vero che la lenticchia d'acqua risulta molto più facile da raccogliere ed essiccare rispetto le alghe microscopiche, e la sua resa teorica annua di biomassa è elevata (oltre cinquanta ton di biomassa secca per ettaro, secondo alcuni studi israeliani, ma solo due ton/ha.anno secondo fonti thailandesi), è altrettanto vero che gli studi teorici spesso comportano grossolani errori di estrapolazione, e che la biomassa di Lemnacee raramente supera il 5% di sostanza secca.
Al di là delle incertezze legate alla ricerca di nuove tecnologie, le affermazioni di certi imprenditori sono comunque, a dir poco, azzardate. Ad esempio, il progetto da 60 M US$ capeggiato dal menzionato imprenditore italo-americano, prevede di far andare una turbina da 12 MW con gas ricavato dalla pirolisi di una coltivazione di Lemnacee di soli 6 ettari.

Un semplice bilancio di energia indica che ciò sarebbe termodinamicamente impossibile, perfino in una località situata nella fascia equatoriale. È inoltre necessario considerare che le microalghe crescono in un volume di acqua, ma le Lemnacee solo possono crescere sulla superficie, per cui la loro ipotetica coltivazione richiederebbe la costruzione di grandi bacini dai pochi cm di profondità, o lo sviluppo di bioreattori specifici, forse più efficienti ma sicuramente antieconomici.
Molto più umile, ma con maggior dose di buon senso, sembra il progetto della Ong argentina Mamagrande, la quale intende convertire la laguna di Totoras, nella provincia di Buenos Aires, in una produzione industriale di Lemnacee, per utilizzarla come materia prima a basso costo per la produzione di plastica ecologica a partire dall'amido contenuto nella pianta, oppure per la produzione di bioetanolo, e, allo stesso tempo, rigenerare la qualità dell'acqua della suddetta laguna, la quale si trova fortemente eutrofizzata sia dagli scarichi fognari del paese omonimo che dai fertilizzanti trascinati dalle piogge.
A questo punto è spontaneo chiedersi: “Cosa possiamo ragionevolmente aspettarci dalla coltivazione della lenticchia d'acqua?”. Secondo studi della Fao, questa pianta ha la seguente composizione media: 5% di materia secca, della quale il 38% sono proteine, il 4% sono grassi, il 9% sono fibre e il 19% sono ceneri (ovvero: minerali a base di Ca, K e Mg). Il restante 30% sarebbe composto da proporzioni variabili di amido e di altri carboidrati. Appare dunque una biomassa molto interessante per l’utilizzo agroenergetico, il suo potenziale metanigeno (BMP) teorico è dello stesso ordine di grandezza di quello del mais e la soia. La coltivazione della lenticchia d’acqua richiederebbe però un certo investimento in una grande vasca poco profonda e lo sviluppo di un sistema di raccolta automatizzato, per ora inesistente a livello commerciale. Il costo operativo di un'ipotetica coltivazione di Lemnacee, per contro, sarebbe quasi nullo e la possibilità di raccogliere, ogni giorno, la biomassa rende inutile la costruzione di silos, trincee ed altri sistemi di stoccaggio.

Per concludere, diciamo che all’oggi rimane una grande incognita che meriterebbe essere approfondita: qual è l'effettiva produttività industriale di questa pianta nelle nostre latitudini?