L'ultima notizia di cronaca riporta una infezione da trichinosi nella carne di cinghiale nel Foggiano: dieci intossicati. È una variante sullo sfaccettato tema ascrivibile alla voce "emergenza ungulati". A fine novembre un anziano di 92 anni è stato aggredito sulla porta di casa nelle campagne del Basso Mantovano. Gli incidenti sono all'ordine del giorno, con una popolazione di cinghiali stimata sul territorio nazionale in oltre 2,3 milioni di capi. Non mancano, purtroppo e non sono pochi, i sinistri stradali, anche mortali. Si verificano sulle autostrade, così come sulle superstrade, le strade statali e provinciali. Per non parlare delle invasioni nelle città - dai parchi a Roma alle colonie diffuse in Liguria - che mettono a rischio l'incolumità dei cittadini.

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Coldiretti, sempre molto attenta a tracciare il perimetro dei fenomeni legati all'agricoltura, nei giorni scorsi ha rilevato che i numeri evidenziano "quasi un incidente ogni due giorni in Italia a causa di animali selvatici come i cinghiali in città e campagne, provocando più di duecento fra morti e feriti sulle strade in un anno, oltre a danni alle coltivazioni e rischi sanitari per gli allevamenti".

 

Ci permettiamo di ricordare, in modo particolare, le esigenze di biosicurezza di un settore, quello legato alla suinicoltura. Un Paese come l'Italia, che fra i punti di forza del made in Italy agroalimentare vanta una filiera suinicola in grado di esportare circa 8 miliardi di euro per un valore complessivo che si aggira sui 20 miliardi, può permettersi di correre il rischio di finire a carte quarantotto per la diffusione della peste suina africana, di cui i cinghiali sono i principali portatori? Che fare? Come innalzare le barriere per la biosicurezza, tenuto conto che per gli allevamenti si tratta di misure onerose sul piano logistico, ma in modo particolare sul lato economico?

E ancora: come risarcire i danni alle coltivazioni, tenuto conto che di solito i ristori agli agricoltori non raggiungono mediamente il 30% delle perdite effettive?

 

È innegabile che sia impellente intervenire per contenere il fenomeno, al quale si aggiungono - se vogliamo ampliare il ventaglio - i danni provocati da altri ungulati, da uccelli, da nutrie, che si aggiungono a quanto causato dai cambiamenti climatici.

 

Nei giorni scorsi Coldiretti ha rilanciato alla presenza del ministro dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida un'alleanza fra agricoltori e cacciatori, chiedendo contestualmente che le attività faunistico venatorie possano operare in sinergia con le attività agricole, mantenendo gli ecosistemi e tutelando la biodiversità, promuovendo il turismo, creando una normativa nazionale per le filiere delle carni di selvaggina. Potrebbe essere un primo passo per contenere la proliferazione dei cinghiali e frenare in parte l'abbandono dei terreni da parte degli agricoltori (l'assalto degli ungulati è solo uno dei motivi, la mancanza di redditività e la sicurezza di un futuro per i giovani sono forse la prima causa del mancato o comunque difficile ricambio generazionale).

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Quello che serve è una politica efficace di contenimento dei cinghiali. È bene essere consapevoli che le azioni a tutela e salvaguardia delle specie considerate più fragili o a rischio estinzione, come nel caso dei lupi, vanno benissimo fintantoché si pone il problema dell'esiguità della specie. Quando poi si passa alla situazione opposta, cioè una presenza fuori controllo di animali selvatici, col rischio (e se parliamo di cinghiali il rischio è diventato una certezza) di incidenti mortali, gravi danni alle colture, pericolo per i cittadini, non c'è più tempo da perdere. Bisogna intervenire, perché l'interesse dell'uomo e la sua sicurezza vengono al primo posto.

 

Come eliminare gli animali? Siamo ben lontani dal chiedere una carneficina. Giammai. Però è chiaro che animali così prolifici e fuori controllo vadano "contenuti". Siamo in parte scettici sullo stratagemma di impiegare immuni contraccettivi da distribuire tramite dispenser con piatti di cibo, come proposto nel Savonese dall'Osservatorio Animalista. Così, a naso, ci sembra difficile da attuare.

 

Ogni soluzione, con la condivisione degli agricoltori - che sono vittime dei cinghiali - dei veterinari, dei Ministeri della Salute e dell'Agricoltura, dovrà essere discussa e attuata in fretta. Non è possibile perdere altro tempo. Gli agricoltori hanno bisogno di sicurezza e di efficienza, così come gli stessi cittadini, alla luce di uno scenario ormai fuori controllo.

 

Quanto ai produttori di suini e alla filiera dei salumi, diamo ogni potere al commissario straordinario e chiudiamo il cerchio per debellare la peste suina africana. Non servono alibi né tantomeno tentennamenti. Qualora si allargasse la "zona rossa" a regioni fortemente vocate alla produzione e trasformazione di suini, vedremmo bloccato l'export e finirebbero in ginocchio allevatori, industrie di lavorazione di carni e salumi, prosciuttifici e stagionatori. Abbiamo in Italia quasi settecento varietà di salumi, sarebbe una strage anche sul versante occupazionale e della tradizione gastronomica italiana. Non dimentichiamo che fra i primi prodotti Dop del made in Italy esportati a livello mondiale ci sono i prosciutti di Parma e San Daniele.

 

Se non dovessimo fermare l'emergenza cinghiali, agli incidenti, ai morti, ai campi devastati, al danno economico diretto si aggiungerebbe un varco enorme per l'italian sounding, lastricato da finti prodotti. Meglio di no.