Non è nel mio stile scrivere in prima persona, ma in questo caso l'eccezione è doverosa. Dalle reti sociali e dalle email dei lettori alla redazione ricevo sempre più spesso richieste di consigli da parte di persone che hanno investito cospicue somme di denaro nella coltivazione del bambù, senza alcun ritorno dell'investimento.

 

Qualcuno crede di aver sbagliato tecnica colturale, qualcun altro si dice truffato. Molti credono che io sia in qualche modo coinvolto con l'operatore economico che gli ha venduto il progetto del bambù. Con questo articolo spero di fornire una panoramica completa di come si è evoluta la bolla speculativa del bambù in Italia, le risposte alle domande più frequenti che mi vengono sottoposte, ed un elenco degli articoli e dei riferimenti.

 

Un po' di storia

Il mio approccio professionale al bambù inizia nel 1996, traducendo dal tedesco alcuni testi che servivano a mia moglie per la sua tesi di laurea sperimentale all'Università Iuav di Venezia "La bionica del bambù" (estratto pubblicato in una rivista spagnola, molto prima che in Italia si parlasse di bambù).

 

Nel 2011 ho vinto il primo premio di un concorso di idee indetto da The Economist e sono stato invitato a presentare il mio concetto di ciclo produttivo ad emissioni di CO2 negative in un congresso tenutosi alla Pace University di New York (video in inglese).

 

 

Riassumo la presentazione per chi non domina l'inglese: si tratta di un sistema di economia circolare basato sulla fermentazione oscura dei rifiuti o le acque fognarie e la coltivazione del bambù. Esso è teoricamente valido ovunque, ma nella pratica è necessario adattarlo caso per caso al contesto territoriale. Il concetto di produzione di bioidrogeno anziché di biogas era innovativo all'epoca, ma è ormai superato: meglio produrre biogas (si vedano Idrogeno da biomasse e Green Deal e Il ritorno del bioidrogeno). Comunque sia, il mio studio dimostra che i massimi risparmi di C si ottengono sostituendo materiali edilizi ad alte emissioni (acciaio, calce e cemento, ceramica) con compositi a base di carbonio organico. Che poi sia meglio sfruttare il bambù o altra specie vegetale, è tutto da valutare caso per caso.

 

Ritengo che l'implementazione del mio progetto, così come presentato nel 2011, sia difficilmente realizzabile in Europa per i seguenti motivi:

  • La Ce non ha una posizione univoca sul bambù. Ad esempio, la Regione Lombardia considera il Phyllostachys edulis come una specie alloctona potenzialmente invadente e pericolosa per la biodiversità (si veda il quinto articolo nell'elenco di letture consigliate). Non si può dunque scartare la possibilità che un'ordinanza regionale futura renda obbligatoria l'estirpazione dei bambuseti.
  • Nonostante le sue proprietà meccaniche, un cavillo della legislazione europea impedisce di omologare i compositi di bambù per usi strutturali. Il materiale proviene da un'erbacea, quindi "non è legno", quindi non è applicabile la normativa comunitaria sulle strutture in legno. Un classico esempio di eurostupidità, ma il vuoto legale è sempre un fattore di freno all'innovazione. Il che non giustifica neanche la posizione di chi vorrebbe costruire in Europa capanne in bambù come quelle di alcuni Paesi in via di sviluppo.
  • Nel caso specifico dell'Italia bisogna fare i conti con: le restrizioni all'uso agricolo di acque reflue e fanghi fognari; la Direttiva Nitrati che potrebbe limitare l'apporto di N e quindi la produttività - aspetto che andrebbe sottoposto a ulteriore ricerca -; e il proibitivo costo della manodopera. Per inciso: la coltivazione e la raccolta del bambù per produzione di compositi, come quelli ipotizzati nel mio progetto, non si può effettuare con mezzi meccanici. Richiede la selezione manuale canna per canna.
  • Durante una visita al quartier generale di un noto fabbricante svedese di mobili, il responsabile del Dipartimento Sostenibilità mi dimostrò che - almeno nel contesto scandivano - è più economico, nonché sostenibile, produrre i compositi con legno di betulla o pino che con bambù. Grazie all'elevata meccanizzazione della filiera del legno, e alla gestione razionale delle risorse boschive, gli svedesi riescono a produrre i listelli già piallati ad un prezzo pari o perfino leggermente inferiore a quello dei listelli di bambù cinesi, senza il costo né le emissioni di CO2 del trasporto.

 

Oltre al premio The Economist, ho vinto anche un premio dell'Environmental Defense Fund per un sistema di colture sinergiche dove una siepe di bambù serve a catturare i nitrati dilavati dalla pioggia. Nel 2012 sono stato invitato da Rai 3 per una puntata su Geo&Geo e un'altra su Geo&Scienza. La maggior parte degli operatori economici italiani del bambù ha inserito la videoregistrazione della prima nelle proprie pagine web e reti sociali, modo di "prova" della validità delle loro proposte, anche quando queste ultime includono argomenti come la biodinamica, contro la quale mi sono già espresso in diverse occasioni.

 


A che punto siamo

Sono due le caratteristiche che ho osservato fra coloro che mi hanno contattato finora in merito agli investimenti in bambù:

  • Nessuno è un agricoltore professionale, né ha una formazione professionale specifica in botanica o biologia, né esperienza previa in agricoltura.
  • La decisione di investire sul bambù sembra scaturire da fattori puramente emozionali, intuizioni e ragionamenti semplicistici, un fenomeno noto in psicologia con il nome cognitive bias, che potremmo tradurre come propensione o pregiudizio cognitivo. Data la difficoltà di traduzione del termine inglese bias, in italiano si usa la locuzione ibrida "bias cognitivo".

 

Senza pretendere di psicoanalizzare chi investe in un bambuseto, né di giudicare le tecniche pubblicitarie dei proponenti di tali progetti, è utile mettere in guardia i lettori sul bias cognitivo. In poche parole il cervello umano ha una specie di meccanismo di difesa contro l'eccesso di informazione, per cui tende incoscientemente a semplificare in diversi modi l'informazione che riceve per riuscire a processarla velocemente. I primi a studiare i bias cognitivi furono A. Tversky e D. Kahneman. Quest'ultimo ricevette il Premio Nobel di Economia nel 2002, precisamente per lo studio dei bias cognitivi nei processi decisionali degli investitori. Il bias cognitivo ci rende manipolabili perché il nostro subconscio non ci lascia vedere le cose come sono, bensì come vogliamo noi che siano. Gli esperti della pubblicità commerciale, del trading finanziario e della propaganda politica sfruttano da sempre questa vulnerabilità del cervello umano per influenzare le nostre decisioni. Tutti siamo vulnerabili al bias cognitivo, perfino chi per mestiere è addestrato nella pratica del metodo scientifico e dovrebbe prendere le decisione su basi puramente logiche (si veda al esempio il paragrafo "Come leggere e giudicare la letteratura scientifica" in questo articolo).

 

Diversi autori segnalano l'esistenza di 180-200 tipi di bias cognitivi ai quali non possiamo sfuggire perché sono una caratteristica funzionale del cervello umano. Possiamo solo ammettere la loro esistenza e minimizzarne gli effetti ricorrendo al metodo scientifico prima di prendere decisioni importanti: formulare ipotesi, ricercare evidenze, valutare tutte le evidenze, confermare o riformulare le ipotesi.

 

Pur non essendo un esperto in psicologia, nelle mail e conversazioni con gli investitori che mi hanno interpellato in merito ai loro progetti di bambuseti ho riscontrato i seguenti bias cognitivi:

  • Ancoraggio (anchor bias): tendenza a valutare le informazioni in modo distorto. Le nostre valutazioni vengono influenzate, ad esempio, dalle prime cifre o informazioni che processiamo. Se vengono presentate prima le caratteristiche positive di un ipotetico business del bambù, estrapolate da valori - molto probabilmente esagerati - riscontrabili nel web o perfino autoreferenziali, le persone rimangono "ancorate" a tali informazioni e tendono a rifiutare sistematicamente ogni evidenza contraria alle convinzioni che hanno acquisito. Questa è la causa più frequente di propagazione di "bufale" nelle reti sociali.
  • Ottimismo esagerato (optimism bias): tendenza a minimizzare i rischi, o perfino a ignorarli.
  • Eccesso di fiducia in se stessi (overconfidence bias): tendenza a credere che si è più bravi e quindi capaci di avere successo dove altri hanno fallito. In genere è intrecciata con la credenza di essere capaci di giudicare le persone, e le loro intenzioni, in base a mere informazioni superficiali o "feeling".
  • Giudizio "spannometrico" (heuristic bias): tendenza a fare larghe approssimazioni o estrapolare dati "da letteratura" non necessariamente applicabili al proprio caso, o perfino basarsi su fallacie logiche.
  • Aspettativa esagerata (exaggerated expectation bias): è la tendenza erronea ad aspettarsi risultati consistentemente migliori rispetto a quelli che ragionevolmente potremmo aspettarci di ottenere.
  • Criterio d'autorità (authority bias): tendenza a fidarsi ciecamente di coloro a cui si è attribuito il ruolo di "autorità". Si intreccia con il bias di ancoraggio, quindi si tende a seguire l'opinione del primo "guru" al quale si è dato fiducia. È un bias frequente perfino nel mondo accademico, dove si giudica uno studio in base al prestigio dell'istituto e non ai meriti del ricercatore.
  • Conferma (confirmation bias): tendenza a cercare che altri confermino le nostre credenze, rifiutando gli argomenti contrari.

 

Lo scorso mese di maggio uno degli operatori economici del bambù ha pubblicato un video in una rete sociale dichiarando che il modello di business del bambù a scopo gastronomico è fallimentare. I turioni di bambù che, secondo i business plan, la grande distribuzione avrebbe acquistato a caro prezzo dal fautore di questo modello economico, non si vedono nei supermercati. Quindi, o non ci sono o non sono graditi ai consumatori italiani. Pare che l'unico introito degli operatori sia la vendita a pochi centesimi per delle cannucce da usare come tutori per i pomodori. Il video annuncia dunque un nuovo modello di affari basato sulla vendita di crediti di carbonio e l'entrata in borsa dell'azienda.

 

Conseguentemente, ho ricevuto diverse richieste di informazione da persone preoccupate per i loro investimenti nel bambù gastronomico, e da altre che invece vorrebbero capire qualcosa sui fantomatici crediti di carbonio. Poiché non sono né avvocato, né broker finanziario, né commercialista, ho ritenuto utile pubblicare una lista delle Faq rilevate negli ultimi anni, aggiungendo quelle relative a quest'ultima evoluzione del mercato del bambù, in modo che ciascuno possa almeno avere qualche elemento di giudizio razionale.

 

Le Faq sul bambù

  • Ho visto il video di Geo&Geo sulla pagina web/Facebook dell'operatore XY. Lei è un loro consulente?
    "Non ho assolutamente alcun rapporto con nessuno degli operatori economici del bambù italiano".
  • Lei quanti ettari di bambù ha?
    "Nessuno. La mia attività professionale e imprenditoriale si focalizza su ben altro. Non ho mai investito nel bambù per i motivi spiegati in dettaglio nei miei articoli".
  • Ho fatto bene a investire i miei soldi nel bambù?
    "Si legga gli articoli elencati nella sezione finale e tenti di trarre le sue proprie conclusioni. Non serve una laurea, basta avere l'onestà intellettuale di riconoscere i bias cognitivi spiegati sopra".
  • Secondo lei, sono stato imbrogliato?
    "Non conosco i termini del suo contratto e comunque non sta a me giudicare fatti così delicati come una presunta truffa o se la decisione di un anziano di investire tutti i suoi risparmi in un bambuseto sia frutto di un reato di circonvenzione. Bisogna rivolgersi ad un avvocato penalista".
  • Sono passati cinque, sei anni ma il mio bambù gigante è ancora un cespuglio. Dove ho sbagliato? Quando inizierà a produrre il mio bambuseto?
    "Questa domanda è un tipico esempio di fallacia logica. L'investitore assume di aver piantato bambù gigante, ma dove c'è la prova? Ha fatto un'analisi del Dna per poter affermare che ciò che ha piantato erano effettivamente 'semi di Phyllostachys edulis' e non qualcuna delle altre mille specie di bambù? In Cina, il bambù gigante viene riprodotto da rizomi o da talee. Tutti i dati di crescita di cui dispongo si riferiscono a questo tipo di riproduzione. Non ho trovato dati sulla riproduzione del P. edulis da semi. Tra l'altro, la bibliografia di cui dispongo segnala che questa pianta non produce semi se non a intervalli aleatori, dell'ordine di decenni, e che la maggior parte non è fertile. Quindi ritengo lecito dubitare della provenienza dei semi. Le previsioni nei business plan degli operatori economici italiani sembrano essere il tipico esempio di cherry picking: forse hanno estrapolato i minori tempi di crescita della riproduzione vegetativa alla riproduzione da seme. Tutto da dimostrare. Ammesso e non concesso che lei abbia effettivamente piantato semi di P. edulis, in base a quali dati è stato redatto il piano di irrigazione e concimazioni? Sono dati basati su esperienze previe nelle stesse condizioni pedoclimatiche, o estrapolati dalla "letteratura" cinese (che riguarda colture in zone subtropicali e con eccesso di azoto) o latinoamericana (che si riferisce alla Guadua angustifolia, un bambù tropicale molto diverso dal "moso" alias "madake" asiatico)".
  • È possibile che il bambù non sia cresciuto perché non ho applicato il metodo biodinamico?
    "Si legga i due articoli sulla biodinamica e l'articolo sull'influenza lunare sulla crescita delle piante riportati alla fine e tragga le sue conclusioni".
  • Lei afferma in un suo articolo che ancora non ci sono contributi ai crediti di carbonio nella Pac. Ma il titolare della XY afferma che in pochi giorni hanno guadagnato centinaia di migliaia di euro di crediti di carbonio (qualcuno li chiama erroneamente "certificati verdi"). Come stanno le cose?
    "Le aziende obbligate dal Protocollo di Kyoto (cementifici, centrali termoelettriche, acciaierie, eccetera) possono solo generare crediti di carbonio secondo il meccanismo dello sviluppo pulito dell'Ipcc, cioè mediante progetti di riforestazione (quindi il bambù è escluso) in Paesi del Terzo Mondo, oppure comprare tali crediti dalla borsa mondiale. La Ue vuole creare un sistema di incentivo alla carbonicoltura in Europa, che nulla ha a che vedere con i crediti di carbonio, ma con i contributi della Pac. Ma il regolamento è in preparazione e la comunicazione al Parlamento Europeo parla solo di riforestazione con specie autoctone, conversione da seminativo a maggese, e altre tecniche alcune delle quali irrilevanti per il contesto agricolo italiano. Esistono poi meccanismi volontari: se un qualsiasi soggetto volontariamente decide di compensare la sua impronta di CO2, può perfettamente rivolgersi ad un altro soggetto che abbia un qualche sistema di sequestro di C certificato. Va posta molta attenzione ai bias cognitivi che questo concetto comporta:
     • Questo meccanismo vale per qualsiasi sistema di cattura e sequestro di carbonio, non è una caratteristica esclusiva del bambù. Ad esempio, ci sono operatori economici che da anni si occupano di vendere alle aziende, che aderiscono su base volontaria, dei crediti di carbonio vincolati alle superfici di verde pubblico dei comuni che le mettono a disposizione.
     • L'esistenza di una certificazione non implica che ci siano aziende disposte a spendere a fondo perduto per tali certificati.
     • Gli enti certificatori sono pagati dall'operatore certificato, quindi sono giudici e parte. Con tutte le implicazioni etiche e morali che ciò comporta, malgrado sia un meccanismo perfettamente legale e perfino incoraggiato dagli Stati. Si veda il caso della senape abissina.
     • Il fatto che un'azienda sia quotata in borsa non implica che il suo valore futuro sia prevedibile, si tratta sempre di un investimento ad alto rischio.
     • Infine, i "certificati verdi" non c'entrano niente né con il bambù né con i crediti di carbonio: erano un sistema di incentivo delle energie rinnovabili, ormai abrogato dalla legislazione successiva al 2018.

 

Letture consigliate per informarsi e riflettere