Se leggiamo in maniera comparata la strategia agricola statunitense e quella dell'Unione europea per i prossimi dieci anni non è difficile trovare forti differenze di fondo. Da una parte, negli Usa, è sempre molto forte la propensione a spingere le produzioni con forti contributi energetici e tecnologici. Nell'Unione europea è invece palese la tendenza opposta: ridurre gli input chimici (per gli agrofarmaci il 50% al 2030) aumentando la biodiversità e la compatibilità ambientale.

Oggi nell'Unione non sono pochi a domandarsi se sarà possibile poter avere tanti limiti alla coltivazione - diverse organizzazioni (la scorsa settimana Copa/Cogeca) hanno chiesto più approfondite valutazioni di impatto economico, sociale ed ambientale delle nuove norme che limitano l'uso di presidi chimici.

A conforto dei sostenitori delle regole ambientali sono arrivati, proprio lunedì scorso, i dati che mostrano come nel 2018 e 2019 nell'Ue vi sia stata una riduzione dell'uso degli agrofarmaci rispettivamente dell'8 e del 5% nei confronti della media del triennio 2015-2017. Per gli agrofarmaci più pericolosi la riduzione nel solo 2019 sarebbe stata addirittura del 12%. Le quantità però ci dicono poco. Noi sappiamo che negli ultimi 30 anni l'evoluzione scientifica e tecnologica non solo nel settore fitoiatrico, ma in tanti altri campi agronomici, è stata formidabile - anche e soprattutto dal punto di vista ambientale e della tutela della salute. La ricerca scientifica e tecnologica deve quindi continuare a rivestire un ruolo chiave nello sviluppo agricolo. Con l'obiettivo del maggior rispetto ambientale ma anche e soprattutto per consentire un giusto reddito agli agricoltori.

C'è poco da discutere: poca ideologia, molta tecnologia.