Si stima che per fine secolo, se nulla sarà fatto per porre rimedio ai cambiamenti climatici in corso, le temperature saliranno di 4,1°C-4,8°C rispetto all'era preindustriale, uno scenario catastrofico non solo per il mondo agricolo.

È partita da qui la relazione di Massimo Tagliavini, professore alla Libera Università di Bolzano, durante la seconda giornata del convegno internazionale dedicato al mondo della mela, venerdì scorso, a Interpoma 2020.

Per evitare che tale previsione si realizzi, tutti, anche gli agricoltori, possono mettere in atto comportamenti sostenibili che combattano il cambiamento climatico. Secondo i dati resi noti, infatti, l'agricoltura, a livello mondiale, contribuisce per circa il 21% alle emissioni di gas serra e se si considera anche la fase di post raccolta si sale al 37%. Il primo passo per migliorare è calcolare l'impronta carbonica di un frutteto, in questo caso di un meleto. È ciò che Tagliavini, con il suo gruppo di ricerca dell'Università di Bolzano, sta facendo ormai da anni, non fermandosi all'impronta carbonica della fase di coltivazione (impianto, gestione ed espianto) ma ampliando i calcoli alle fasi di lavorazione e fino alla consegna al consumatore, 'from farm to fork'.

Durante il convegno di Interpoma, che quest'anno è stato interamente digitale, Tagliavini ha presentato i risultati della ricerca. "La superficie occupata da meleti, nel mondo, si aggira attorno allo 0,5% di quella totale. Bisogna rendersi conto che c'è una connessione fra la coltivazione di mele e le emissioni di gas serra", ha detto Tagliavini. L'impronta carbonica della mela è misurata calcolando la quantità di gas serra immessi in atmosfera per chilogrammo di mela prodotto.

I ricercatori hanno analizzato il processo di produzione delle mele, individuato i momenti in cui vengono emessi gas serra, convertito i dati in CO2 equivalenti (misura del Global warming potential, quanto un gas serra contribuisce al riscaldamento globale rispetto all'anidride carbonica), calcolato poi lo stoccaggio del carbonio nel suolo e nelle piante per arrivare a definire quanto effettivamente la fase di campo contribuisca all'effetto serra.

Purtroppo però perché una mela raggiunga il consumatore ci sono ancora le fasi di lavorazione e la distribuzione. Più ricerche sul campo, a partire dal 2010 hanno quantificato l'impronta in circa 50 grammi di CO2 equivalenti per chilogrammo di mela, se si considera una produzione media di 60 tonnellate ad ettaro. I risultati sono simili anche considerando le ultime analisi, datate 2020, su una superficie di circa 5mila ettari in Trentino Alto Adige, coltivati secondo le linee guida per la coltivazione integrata. Se si tiene conto anche della meccanizzazione però si sale a 58 grammi di CO2 equivalenti per chilogrammo di mela. A incidere di più sono la fase d'impianto, la fertilizzazione e la difesa. Nel conteggio vanno però calcolati i flussi biologici del frutteto che, compiendo la fotosintesi, stocca carbonio. A conti fatti le emissioni di gas serra, nella fase di campo della produzione della mela, sono ampiamente compensate proprio dallo stoccaggio di carbonio.

Non si può dire la stessa cosa per le altre fasi: post-produzione e logistica. Per magazzini alimentati ad energie rinnovabili l'impatto della refrigerazione può essere portato quasi a zero mentre è più difficile agire sul packaging. Per quanto riguarda poi la distribuzione i dati variano moltissimo a seconda della destinazione e del mezzo di trasporto scelto: se una distribuzione locale può valere anche solo 15 grammi di CO2 equivalenti per chilogrammo di mele, quando si percorrono lunghe distanze, con i camion, si toccano anche i 300 grammi (Boschiero e altri, 2019).

È importante quindi per l'agricoltore tentare di compensare l'impatto della produzione delle mele nella fase di campo poiché è la fase nella quale più si può incidere aumentando lo stoccaggio di carbonio. "Sono diverse le leve a disposizione dell'agricoltore per aumentare lo stoccaggio del carbonio" ha detto Massimo Tagliavini ad AgroNotizie. "Possiamo cercare di stimolare al massimo la fotosintesi anche di piante che non sono alberi di melo. Nel periodo in cui il melo non ha foglie va sfruttato il fatto che la luce arriva al terreno e va consentita la biodiversità erbacea. C'è margine anche per la semina di essenze a crescita rapida che siano in grado di trasferire a livello radicale gran parte del prodotto della fotosintesi. Vanno usate tecniche di minima lavorazione per non esporre la biomassa presente. Esistono dei limiti all'accumulo di sostanza organica ma siamo molto lontani dal raggiungimento degli stessi. Foglie e residui di potatura vanno lasciati in loco e poi si può agire sulla riduzione delle emissioni dovute ai fertilizzanti".

I fertilizzanti infatti hanno un impatto come emissioni di CO2 al momento della produzione ma anche quando vengono distribuiti emettono gas serra, per questo il concime "va fornito al terreno in forma poco disponibile" ed è importante fornire al terreno la sostanza nutritiva della quale ha realmente bisogno. La scelta varietale, al momento dell'impianto, gioca un ruolo fondamentale sulle emissioni future di gas serra durante la fase di campo. "Optare per varietà tolleranti o resistenti a patologie importanti, come la ticchiolatura, fa risparmiare in trattamenti e si entra così molto meno in campo", ha concluso Tagliavini.