Sarà solo una percezione - ma durante una breve puntata a Biofach 2020, la trionfale edizione della più grande fiera bio del mondo che si è tenuta la scorsa settimana a Norimberga – mi è venuta in mente una vecchia canzone di Guccini. Perché il big business si magna tutto – perché oggi il bio è soprattutto big business. Big business non solo per il cibo ma anche per la cosmetica e la cura del corpo (a Biofach è affiancata Vivaness, fiera appositamente dedicata al "personal care").

Il mercato mondiale dei cibi bio ha già sforato i 100 miliardi di dollari. Un mercato che cresce soprattutto nei paesi più ricchi e affluenti: gli Usa valgono più del 40% del mercato globale, la sola Germania oltre il 10%, più o meno come la Francia.
In paesi come la Danimarca o la Svizzera il 10% dei consumi alimentari totali della popolazione è certificato come biologico. Alla grande e crescente voglia dei cibi bio dei ricchi corrisponde ovviamente una crescente offerta: 71,5 milioni di ettari coltivati nel mondo. Alle enormi farm bio che producono carne per i bisogni dei più affluenti fra gli asiatici e gli statunitensi (l'Australia ha 31,7 milioni di ettari certificati) corrisponde una enorme pletora di piccoli e piccolissimi produttori per esempio in India (1,15 milioni di piccole aziende), in Uganda (210mila) o in Etiopia (204mila produttori) che forse sognano di diventare fornitori di un paese sviluppato.

In un mondo sempre più diviso fra ricchi e poveri, la coltivazione biologica ha cessato di essere una proposta e un laboratorio per una agricoltura più sostenibile per diventare una sorta di settore di alta gamma alimentare e trasformarsi in un segmento di mercato.
Un segmento sottoposto alle mille contraddizioni (e ai mille sprechi) della moderna società dei consumi.