Partiamo da un dato: al 61% dei turisti piacerebbe partecipare alla raccolta delle olive e produrre il proprio olio. Ai cittadini in vacanza nelle zone di villeggiatura piace insomma sporcarsi le mani, entrare in campo a scuotere le piante, sistemare reti, raccogliere le olive e portarle in frantoio per produrre il proprio olio. Almeno per un giorno.

E per farlo sono disposti a pagare. Questo dato, che emerge dal rapporto La valorizzazione turistica dell'olio pubblicato in occasione del venticinquesimo anniversario dell'Associazione nazionale Città dell'Olio (Anco), conferma una delle macro-tendenze dell'era moderna: il cibo come esperienza.

Una fetta dei consumatori è infatti stanca di fare la spesa al supermercato, dove tutti i prodotti tendono ad essere uguali e spersonalizzati. Vorrebbe invece conoscere la storia di un cibo, chi lo ha creato e, perché no, prendere parte a questo processo.
 

Il fenomeno dei foodies

D'altronde avvicinare il consumatore all'azienda agricola è un trend da almeno trenta anni, esploso con gli agriturismi. Sono quasi 25mila le aziende agrituristiche sparse sul territorio nostrano che attirano ogni anno circa 13 milioni di avventori. E i numeri sono in crescita.

Ma c'è di più. Perché se nell'agriturismo il cliente si siede a tavola per gustare i prodotti dell'azienda agricola, il foody vuole produrre il cibo e viverne l'esperienza. I foodies non sono critici gastronomici, non hanno una preparazione particolare, ma amano il cibo di qualità, lo studiano, si tengono aggiornati e vogliono sperimentare. Cose nuove ed esperienze nuove.

I foodies italiani sono circa 5 milioni (il 10% della popolazione, il 20% negli Usa) e si concentrano nella fascia 35-44 anni. Sono in maggioranza maschi e sono disposti a spendere per una esperienza di qualità.
 

Una opportunità di business per l'agricoltore

Per le piccole aziende agricole, che certo non se la passano bene, cavalcare l'onda dei foodies può rappresentare dunque una opportunità per chiudere l'anno in attivo. Gli agricoltori che vivono vicino alle grandi città oppure nei luoghi di villeggiatura dovrebbero prendere in considerazione l'idea di sviluppare esperienze legate al cibo da vendere ai cittadini in fuga dalle metropoli oppure ai turisti annoiati.

Qualche idea? Certamente quella dell'olio è una buona base di partenza. Già, perché l'olio è a fondamento della cucina italiana e tutti vorrebbero utilizzare olio buono e genuino. Ma anche la vendemmia è uno di quegli eventi bucolici che fanno parte dell'immaginario comune e sono molte le cantine che offrono questa esperienza.

E perché non rispolverare le antiche feste del grano? Alcuni agricoltori si sono spinti oltre, offrendo esperienze legate alle festività. Perché allora non permettere alle persone che vogliono festeggiare Halloween di raccogliere la propria zucca in campo. Oppure a Natale scegliere il proprio albero. Certo, per chi fa mais trasformare un campo in una esperienza è difficile. O forse no? Questa azienda agricola insegna che bisogna pensare fuori dagli schemi.

Certo, bisogna cambiare modo di lavorare: l'obiettivo non è più solo produrre cibo, ma anche intrattenere e incuriosire i consumatori. E occorre anche fare degli investimenti. Ma se si vuole far crescere il proprio giro d'affari bisogna osare.
 

Il ritorno al cibo e alle tradizioni

Per capire le radici di questa tendenza bisogna guardare alla storia del nostro paese negli ultimi settanta anni. Se nell'era contadina il cibo era la vita delle persone, nel senso che lavoravano per produrre cibo e se questo scarseggiava rischiavano la vita, con l'industrializzazione e l'urbanizzazione il legame campagna-cibo-consumatore si è affievolito. Fino a scomparire con la diffusione dei supermercati negli anni '70-'80, quando il cibo è diventato una commodity da comprare a basso costo.

"Si assiste oggi a una vera e propria perdita culturale, legata al fatto che le generazioni attuali non mangiano più quello che genitori e antenati hanno mangiato, adottando stili alimentari conformati e conducendo - in prospettiva - all'abbandono di tradizioni, rituali e consuetudini culinarie che affondano le loro radici nella storia dei popoli e ne alimentano i tratti culturali e sociali", si può leggere nel documento La dimensione culturale del cibo del Barilla center for food and nutrition.
 

Un business a livello globale

Sono almeno venti anni che tuttavia questa tendenza alla spersonalizzazione si è arrestata e il consumatore è alla ricerca di un nuovo rapporto con il cibo. Un trend che è stato captato anche dai giganti della Silicon Valley che oggi investono milioni di dollari nelle startup AgriFoodTech, che il cibo lo coltivano, lavorano e distribuiscono in modo innovativo.

Per fare un esempio Google ha un suo fondo di investimento, Google Venture, che investe proprio nelle startup food. E ha 350 dipendenti che lavorano per sfamare oltre 70mila persone che lavorano nei campus di BigG in giro per il mondo. E ai creativi non viene servito junk food (hamburger e patatine per intenderci), ma piatti studiati per appagare il palato e liberare la mente.

E a fine giornata i dipendenti hanno la possibilità di partecipare a corsi di cucina e show cooking. Lezioni alla mano in cui imparare a preparare piatti e a conoscere gli ingredienti. A fare esperienze, insomma. E nei weekend dalla Napa Valley in giù è un fiorire di aziende agricole aperte ai forestieri e di degustazioni di vino.