C'è un Paese al mondo, l'America, in cui agli studi legali è permesso reclutare clienti tramite annunci pubblicitari televisivi o sulla stampa, per non parlare del web. E magari vista così la cosa potrebbe pure sembrare moralmente lecita. Molto meno condivisibile, si spera, in caso il reclutamento sia operato pescando fra malati di cancro ai quali vengono promessi indennizzi milionari se saltano sul carro dei querelanti, sia che ne abbiamo qualche diritto oppure no.

Si chiamano "predatory litigation" e hanno ormai soppiantato le pur condivisibili class action delle origini. Lontani sembrano infatti i tempi del caso Erin Brockovich, paladina nel 1993 di una class action contro una multinazionale che con il proprio operato aveva causato danni alla popolazione locale.

A distanza di 27 anni le cose sono molto cambiate. Se allora per il singolo cittadino era impossibile ottenere giustizia contro una potente multinazionale, oggi le carte si sono completamente ribaltate: è impossibile per una multinazionale salvarsi dall'assalto di migliaia di querelanti ammaestrati da studi legali che non si battono più per i diritti dei propri assistiti, bensì per estorcere denaro da cui ricavare parcelle milionarie.

L'obiettivo del reclutamento è infatti quello di sommergere di cause la vittima predestinata, nel caso glifosate-Monsanto si è arrivati in America a 42mila, non tanto per ottenere risarcimenti in ognuna di esse, bensì per mettere alle corde la multinazionale di turno e obbligarla a patteggiare cifre comunque stellari pur di liberarsi della morsa giudiziaria strettale intorno al collo. In un mondo eticamente corretto ciò verrebbe chiamato col suo nome: pirateria. Non a caso, molti querelanti americani non sono nemmeno malati di Linfoma non Hodgkin, quindi avrebbero poche speranze di vincere. Ma ormai è il numero a fare il verdetto, non la verità fattuale delle cose.
 

L'ingordigia viene punita

Forse i lettori di AgroNotizie ricorderanno l'articolo "La Scienza a processo", scritto nell'ottobre 2018 dopo la sentenza che condannava Monsanto, ormai Bayer, a versare 289 milioni di dollari a Dewayne Johnson, giardiniere che dal 2012 ha utilizzato formulati a base di glifosate, attribuendo ad essi il linfoma non Hodgkin che lo ha colpito. Il tutto, in barba a ogni obiezione scientifica portata a favore dell'erbicida. Incluse le ultime posizioni dell'Epa americana che ha ribadito la non cancerogenicità di glifosate.

Ebbene, subito dopo la sentenza milionaria Dewayne Johnson venne immortalato al fianco di un raggiante Timothy Litzenburg, uno degli avvocati dello studio legale che aveva imbastito la surreale causa contro la multinazionale di St. Louis. Cioè una delle succitate "predatory litigation" che stanno infestando i tribunali americani.

Che quella causa odorasse molto di spregiudicatezza oltre il limite del lecito trova conferma oggi: il 37enne avvocato è stato arrestato in Virginia con l'accusa di tentata estorsione ai danni di una società che opera nel settore della chimica, definita dal Dipartimento di Giustizia "Compagnia 1".

Il rampante avvocato avrebbe infatti giurato ai manager di quella società che sarebbe diventato per loro "una minaccia esistenziale", causando alla compagnia perdite in borsa fino al 40 per cento del valore azionario. L'insolenza di Litzenburg si sarebbe spinta perfino alla minaccia di diventare per la società un "incubo di pubbliche relazioni", a meno che questa non inventasse fantomatiche consulenze a suo favore in ragione di 200 milioni di dollari. Giusto per capire chi, nel grande mare della Giustizia americana, sia lo squalo a bocca aperta e chi il tonno da sbranare.

Interessante sarà ora vedere se e come verrà trattata questa notizia dalla stampa generalista nazionale, come pure da quella straniera, a partire dal The Guardian e, soprattutto, da Le Monde, il più fervido aggressore di Monsanto fin dalla comparsa della ormai famigerata monografia Iarc n° 112.

Un Le Monde sul quale nell'ottobre 2017 Stéphane Foucart firmò un articolo dal titolo "Glyphosate: Monsanto tente une dernière manœuvre pour sauver le Roundup". In italiano, "Glifosate: Monsanto tenta un'ultima manovra per salvare Roundup", nel cui sommario si afferma che "La firme de Saint Louis est impliquée dans une campagne de dénigrement visant le toxicologue américain Christopher Portier". Tradotto: "la Casa di St. Louis è implicata in una campagna denigratoria contro il tossicologo americano Christopher Portier".

Cioè, nel più totale disprezzo delle evidenze emerse circa i suoi enormi e oscuri conflitti d'interesse, secondo Le Monde sarebbe stata Monsanto a tramare per denigrare Portier, rivelatosi al contempo presidente del gruppo di lavoro Iarc su glifosate e consulente dello studio legale che per primo mosse una predatory litigation contro la Casa americana.

Non si capisce quindi bene da quali presupposti sia partito il ragionamento dei colleghi transalpini e di tutti gli altri quotidiani che a tali toni si sono subito allineati, ovvero quella stampa molto lesta a demonizzare Monsanto, sorvolando totalmente sui reali livelli di onestà e trasparenza degli studi legali che le muovevano causa. Azioni per le quali i molti articoli "contro" andrebbero sostituiti oggi con pagine di scuse.

Ora l'arresto di Timothy Litzenburg ha infatti messo a nudo il vero animo con cui certi avvocati si muovono contro le multinazionali, anche a costo di strumentalizzare biecamente malattie mortali come il cancro.
Si spera quindi che anche il processo contro glifosate possa prendere l'unica giusta piega: l'assoluzione.