Agli inglesi piace bere e molto del successo dei nostri vini, anche storicamente, è ascrivibile alla loro influenza. Basti pensare al Marsala, molto apprezzato dai consumatori di Sua Maestà fin dal Settecento ed esportato Oltremanica in quantità. I gusti oggi sono cambiati e nei pub meno raccomandabili come nei wine bar più chic di Soho si beve Prosecco. Un vino ormai da record, visto che nel 2018 ne sono state vendute 466 milioni di bottiglie, pari a 2,37 miliardi di euro in valore.

Eppure l'egemonia del Prosecco potrebbe essere messa a rischio da un altro bianco, che poi non è un bianco: l'Orange wine. Il 'vino arancione' si sta velocemente guadagnando il favore dei consumatori inglesi, dopo aver stregato molti palati nostrani. E nella city ormai è il trend topic delle conversazioni da aperitivo. L'Orange wine piace, ne scrivono i giornali, se ne parla in tv, le celeb si fanno i selfie con un bicchiere ambrato su Istagram e i club che vogliono restare al passo non possono non averlo sulla carta.


Orange, il quarto colore del vino

Diciamolo subito, l'Orange wine non è un rosé sbiadito, né una strana alchimia come il Blue wine prodotto in Spagna. Si tratta invece di un vino ottenuto da uve bianche vinificate in rosso, in cui cioè le bucce sono lasciate a macerare a contatto con il mosto per un periodo variabile di tempo, da un giorno fino ad alcuni mesi.

Il risultato? Se i vini bianchi spesso sono considerati privi di tempra, l'Orange wine fa eccezione. La lunga macerazione permette al mosto l'estrazione di polifenoli, tannini e terpeni che solitamente vengono scartati al momento della pressatura. Il risultato è un vino più ricco di profumi e aromi, dal colore intenso che talvolta arriva fino all'arancione e altre si ferma ad un giallo carico.

In Italia i maestri di questa tecnica sono Josko Gravner, friulano, che vinifica in questo modo l'autoctona Ribolla Gialla. Oppure Alessandro Dettori, sardo, che invece impiega il Vermentino. Per i cinefili è uscito anche un film dedicato al tema: 'Skin Contact - Development of an Orange Taste' (a cui si è prestato Gravner), mentre per gli amanti della carta stampata c'è 'Amber Revolution: How the World Learned to Love Orange Wine', di Simon J. Woolf (britannico, ça va sans dire, trapiantato ad Amsterdam).
 


Anfore di terracotta o acciaio?

Molti vignaioli che producono Orange wine lo fanno in anfore di terracotta seppellite nel terreno. La leggenda vuole infatti che a produrre i primi Orange wine furono i georgiani, 5mila anni fa. In questa terra, considerata la culla del vino, i contadini gettavano i grappoli pigiati in anfore di terracotta interrate nel suolo, dove rimanevano fino a fine fermentazione. Quel vino, a dire il vero, nessuno lo ha mai assaggiato e quindi non sappiamo se fosse buono o meno. Ma la tradizione è rimasta e grazie a continue accortezze oggi si producono Orange wine degni di nota.

Attratti dalla marea montante in molti si sono gettati in questo business, soprattutto visto che i prezzi di mercato sono affascinanti: 20-50 euro a bottiglia (senza andare sui nomi blasonati). Ma fare un vino bianco macerato è tutt'altro che semplice. Il rischio concreto è di fare un pessimo vino, ossidato e dall'odore poco piacevole.

Con gli Orange wine però si aprono prospettive interessanti. Anche perché la presenza di una più ricca complessità di elementi, come la presenza di tannini, permette un invecchiamento prolungato. Il contatto del mosto-vino con le bucce, i lieviti e i batteri lattici depositati sul fondo delle vasche, oltre a donare colore arricchisce il vino di aromi nuovi. E così un vitigno a bacca bianca, che vinificato tradizionalmente rischierebbe di rimanere anonimo, può trovare nuova vita in una vinificazione in rosso. L'importante è farlo a dovere.

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