Il 30° compleanno di internet lo scorso 12 marzo è stata una data simbolica per molti aspetti. Il web rappresenta uno strumento di competitività per le aziende agricole, ed AgroNotizie ne è la prova. Ma allo stesso tempo internet è anche il mezzo di comunicazione dei politici pseudoecologisti in cerca di voti e dei "comitati del no" (si veda I comitati del no ed il vademecum biogas e biomasse). Internet è stato il principale mezzo responsabile della popolarità di Greta Thunberg, la giovane attivista svedese icona degli ambientalisti di tutto il mondo. E' comprensibile che una ragazzina di 16 anni creda di poter salvare il pianeta seguendo semplicemente una dieta vegana e manifestando in piazza contro J.C.Juncker. Non è però accettabile la polemica sollevata dalle celebrità televisive e dai "tuttologi" anonimi nei social.

Il pericolo di tale manicheismo è che i detentori del potere decisionale prendano provvedimenti sbagliati, in base ai tweet e like del proprio elettorato. Da un punto di vista scientifico, hanno ugualmente torto il veganismo naif della Thunberg, il monetarismo miope degli euroburocrati di Bruxelles ed il pseudoecologismo ideologico di alcuni esponenti del governo italiano. E nella catena di azioni e reazioni mediatiche, rischia di andarci di mezzo, ancora una volta, il comparto agroenergetico.

Con il presente articolo l'autore pretende offrire una visione obiettiva del problema della sostenibilità rurale ed alcuni spunti di riflessione applicabili alla realtà italiana.
 

Dai figli dei fiori all'economia circolare regolazionista

Gli anni '70 segnano un punto di svolta nella storia moderna per diversi motivi. Sono gli anni in cui discipline come l'ecologia e la macroeconomia iniziano a uscire dagli ambiti accademici per arrivare all'opinione pubblica. La crisi petrolifera del 1973 rappresentò il primo segnale di allarme per mettere in discussione il modello produttivo basato su risorse non rinnovabili. Nascono gruppi avversi alle dottrine preponderanti fino allora, il capitalismo ed il marxismo, difendendo stili di vita e modelli di produzione "alternativi": dagli orticoltori curtensi dei kibbutz israeliani alle comunità di hippies coltivatori di Cannabis indica. Sono gli anni del libro Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa, di Ernst F. Schumacher - antesignano della dottrina detta "decrescita felice" - e anche della nascita in Francia (Regulation et crises du capitalismeMichel Aglietta, 1976) della sua nemesi, il pensiero regolazionista, per il quale il singolo cittadino non conta niente.

Il regolazionismo è una teoria per giustificare l'intervento dello Stato sull'economia, non solo a livello monetario - scuola monetarista - o giuridico -scuola keynesiana - ma anche organizzativo e istituzionale. Le politiche agricole ed energetiche dell'Unione europea sono discendenti dirette dal regolazionismo francese. La famigerata "overregulation", cioè l'eccesso di ingerenza di Bruxelles nelle imprese e nella vita dei cittadini, è stata cavalcata dai liberalisti inglesi come argomento per sostenere la Brexit.

Nel 1974 i ricercatori australiani Bill Mollison e David Holmgren creano il modello noto in italiano come permacoltura o, impropriamente, permacultura (errata traduzione dall'inglese permaculture, parola composta da permanent agriculture, che gioca psicologicamente con la desinenza "culture"). E' un classico il loro libro Permacoltura - Un'agricoltura perenne per gli insediamenti umani (disponibile in italiano). La permacoltura considera la produzione agricola nel suo complesso: come fonte di cibo, di fibra industriale e di energia, ma anche di servizio ecosistemico. La permacoltura si contrappone all'agricoltura tradizionale in quanto analizza il ciclo produttivo dal triplo punto di vista: sociale, economico e ambientale, cercando un equilibrio che porti alla sostenibilità. Il mezzo per raggiungere tale scopo è la progettazione della biodiversità agricola.

Il concetto di economia circolare è stato pure costruito a partire dal 1970, ma a differenza dei precedenti non è possibile stabilire una data ed un autore precisi. Secondo Thibaut Watelet, nel suo saggio The concept of circular economy: its origins and its evolution, il concetto di economia circolare risulta da diverse scuole di pensiero, succedutesi negli ultimi cinquant'anni: l'economia ambientale; l'ecologia industriale; il concetto "dalla culla alla culla" (cradle to cradle, oggetto della norma ISO 14040 Life Cycle Assessment); l'"economia performante" basata sull'economia a laccio chiuso; l'economia verde; l'economia blu, evoluzione di quella verde e la biomimetica (cioè imitare nei processi produttivi i meccanismi propri degli esseri viventi). Le politiche regolazioniste europee contengono elementi delle diverse correnti che confluiscono nel concetto di "economia circolare".
 

Agricoltura circolare o permacoltura da reddito?

La permacoltura è una tecnica di agricoltura biologica diffusa in tutto il mondo. Si riscontra perlopiù in realtà produttive medio-piccole, orientate all'autosufficienza, malgrado non esistano limitazioni di tipo biologico o fisico per la sua pratica redditizia su larga scala. La predominanza dell'agricoltura intensiva sulla permacoltura sembra essere dovuta a questioni di tipo culturale: da sempre banche e investitori analizzano la redditività degli investimenti solo sulla basse dei flussi finanziari, ignorando i costi/benefici ambientali, sociali ed energetici.

L'economia circolare, secondo l'interpretazione degli euroburocrati, non è altro che l'estensione del classico modello lineare di agricoltura intensiva, basato sulle monocolture, con la semplice aggiunta di qualche sorta di recupero dei residui colturali. Inoltre, le politiche regolazioniste condizionano in parte le scelte degli imprenditori agricoli. Ad esempio, i forti incentivi alla produzione energetica da biogas o biomasse spingono le aziende a investire in tali impianti, piuttosto che su altre pratiche ugualmente virtuose, come ad esempio in macchinari per l'agricoltura di precisione o in sistemi di biodiversità agricola.

La nuova direttiva europea delle energie rinnovabili, detta RED II, mira a disincentivare l'utilizzo a scopo energetico della superficie agricola, dando priorità alla produzione alimentare. La direttiva Nitrati, e la futura direttiva sulle emissioni di ammoniaca in atmosfera, tenderanno a penalizzare gli allevamenti intensivi (si veda L'abbattimento dell'azoto dei digestati).

Non abbiamo la sfera di cristallo, ma tutto sembra indicare che nell'immediato futuro Bruxelles intenda gravare le aziende agricole con ulteriori vincoli, invece che stanziare aiuti concreti.

E' possibile affrontare la competizione cinese in un tale contesto? Per tentare di dare una risposta, compariamo tre esempi di modelli produttivi diversi, applicati ad una superficie di un ettaro.
  • Monocoltura tradizionale: coltivazione di mais da granella e utilizzo dei residui come biomassa energetica. La resa media (sostanza secca) si può stimare in 10 tonnellate di granella, e 12 tonnellate di scarti, equivalenti a 5 tonnellate di petrolio se utilizzati come combustibile. Il carbonio immobilizzato è pressoché nullo.
  • Monocoltura "alternativa": coltivazione di bambù gigante. Tale modello produttivo non è mai stato validato in Italia, per cui le ipotesi dei vari "business plan" che girano in internet sono puramente speculative (si veda La bolla speculativa del bambù) pertanto devono essere prese con cautela. Sorge spontaneo chiedersi dov'è il vantaggio di sostituire la monocultura del mais con una monocoltura di bambù, considerando che la coltivazione di quest'ultimo è impossibile da meccanizzare e richiede ingenti apporti di mano d'opera. Il carbonio immobilizzato in un bambuseto va da 50 a 100 tonnellate/ettaro, dipendendo dal sesto d'impianto e dal modello produttivo. Questo è senza dubbio un vantaggio ecologico del bambù sulla coltura del mais ma, contrariamente a quanto sbandierano alcuni fautori del bambù italiano, il meccanismo dello sviluppo pulito (clean development mechanism) adottato dalle Nazioni Unite non prevede i crediti di carbonio se non per azioni di riforestazione nei paesi in via di sviluppo, quindi il beneficio ecologico potenziale non viene retribuito all'agricoltore.
  • "Permacoltura semplificata": 1/3 ettaro coltivato con ortaggi, 1/3 ettaro coltivato con castagni micorizzati con funghi porcini, 1/3 ettaro coltivato con roveri micorrizzati con tartufi. La resa media stimata (a regime, dopo cinque-otto anni) sarà: 7-8 tonnellate di ortaggi; 0,5-1 tonnellate di castagne; 10-15 chilogrammi di funghi porcini; 30-50 chilogrammi di tartufi neri; 130 chilogrammi di miele di castagno; 4-5 tonnellate di ghiande (da vendere come mangime per allevamento biologico di suini); 2-3 tonnellate di cippato proveniente dalle potature, 76 Nm3 di biogas prodotto con gli scarti orticoli (assunto Bmp minimo = 50 m3/ton t.q. e quantità di biomassa = 20% del prodotto). Il biogas ed il cippato si potrebbero valorizzare in un semplice impianto per l'autoconsumo dell'azienda, per l'essiccazione delle castagne ed i funghi, ma anche di eventuali pomodori e legumi coltivati nella porzione orticola. Il carbonio immobilizzato si può stimare in almeno 30 tonnellate/ettaro, fino ad un massimo di 80 tonnellate/ettaro.

Sembra dubbioso che una filiera italiana del bambù, ancora da stabilire e validare, possa competere contro una produzione cinese ormai consolidata da millenni. A maggior ragione con l'arrivo imminente della Nuova Via della Seta, che ridurrà le emissioni di CO2 ed i costi di trasporto fino al punto da penalizzare la produzione nazionale, favorendo quella cinese.

Tralasciamo dunque il business del bambù e compariamo la coltura tradizionale di mais con il modello semplificato di permacoltura, ipotizzato di sopra. Benché la prima superi leggermente la seconda in termini di quantità, risulta inferiore in termini di qualità nutrizionale della produzione e benefici ecologici. La competitività della coltura del mais è destinata a calare ancora nel medio-lungo termine perché in Cina si produce granella di mais ed eventualmente anche pellet dagli scarti, con macchinari e processi più economici di quelli europei.

Al contrario, un modello come quello che abbiamo chiamato "permacoltura semplificata" è fattibile in Italia, ma pressoché impossibile da riprodurre in Cina, almeno per i prossimi dieci anni. Per i produttori italiani si aprirebbe un'ottima opportunità per espandersi nel mercato asiatico, sfruttando gli accordi siglati fra Di Maio e Xi Jinping. I funghi porcini ed i tartufi hanno maggiore valore di mercato rispetto ai turioni di bambù e alle arance siciliane, questo è un fatto incontestabile. Nei ristoranti di lusso di tutto il mondo i prezzi del tartufo variano da 500 a 5mila euro/chilogrammo. Segnaliamo inoltre che la Spagna esporta il "jamón de bellota", (prosciutto di maiali simili a dei cinghialetti, allevati allo stato semi-brado con ghiande) a 150 euro/chilogrammo. Pertanto, per quale motivo non potremmo promuovere un prosciutto italiano simile, che per ora è solo prodotto in piccolissime e pressoché sconosciute realtà in Basilicata e Sicilia? La produzione alimentare di pregio consente di competere nel nascente mercato cinese dei prodotti gourmet - e anche nei mercati tradizionali europei e nordamericani - con prodotti incoltivabili in Oriente. La biomassa di scarto consente comunque la produzione di un piccolo surplus di cippato o pellet, da valorizzare nel mercato a km zero o per dare valore aggiunto alla produzione della stessa azienda. Ciliegina sulla torta: il sistema basato sulla permacoltura consente anche di immobilizzare carbonio nella biomassa forestale, con buona pace di Greta Thunberg e dei vegani di tutto il mondo.
 

Conclusioni

Esistono infinite combinazioni possibili per una produzione agro-alimentare-energetica, basata sulla biodiversità, non necessariamente riconducibili alla "permacoltura ufficiale", non necessariamente vegane, ma comunque potenzialmente redditizie, resilienti ed ecosostenibili.

Alcuni esempi, da valutare caso per caso:
  • Produzioni cerealicole in rotazione con canapa, abbinate ad aree boschive che contengano allevamenti di selvaggina quali cinghiali, caprioli e fagiani. 
  • Produzioni orticole che includano l'allevamento di pollame, conigli e lumache. 
  • Coltivazioni di alberi da frutto, acacie da biomassa ed erbe aromatiche, da abbinare all'apicoltura.
  • Sfruttare fossati o piccoli specchi d'acqua per piscicoltura o ranicoltura - allevamento di rane a scopo alimentare, diffuso in America latina e pressoché sconosciuto in Europa - recuperando l'azoto ed il fosforo delle deiezioni mediante un sistema di fertirrigazione.

Nella filiera agroalimentare la produzione energetica deve essere l'ultimo stadio per valorizzare gli scarti incommestibili e recuperare i nutrienti da restituire alla terra, non può essere una attività fine a sé stessa.