Come vede, a grandi linee, il panorama agricolo italiano attuale?
"Quello agricolo è un panorama in grande fermento e credo che nell'evoluzione dell'agricoltura dei prossimi anni avremo sorprese positive. Molti giovani si avvicinano al settore primario portando una maggiore scolarizzazione e voglia di innovare, ed è proprio l'innovazione uno degli strumenti che farà avanzare il sistema agricolo e agroalimentare italiano.
Ritengo sia questo il motivo per cui gli agricoltori scelgono Cia: perché è 'sul pezzo', puntando molto sull'innovazione anche nella rappresentanza, cercando contaminazioni con la politica, la società, con i colleghi di altre categorie, artigiani, commercianti e industriali. Questo ci porta ad avere un approccio molto libero e rispettoso per gli agricoltori che si rivolgono a noi per farsi rappresentare sindacalmente e usufruire dei nostri servizi"
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Quali sono i programmi e le priorità della Cia nei suoi secondi quattro anni di mandato?
"I programmi e le priorità di Cia sono legate al dibattito che si è svolto all'interno dell'assemblea elettiva. Innovazione e sostenibilità saranno i temi guida di questo mandato, ma investiranno sicuramente il sistema sociale agricolo e agroalimentare.
Noi punteremo all'innovazione 'vera', che non è solo quella tecnologica ma anche di relazioni di filiera tra produttori, trasformatori e consumatori, in un nuovo paradigma che mette insieme produttori e cittadini in un unico progetto di coproduzione del cibo, che rimane l'elemento più importante nella vita delle persone.

Un secondo tema focale sarà la centralità dell'agricoltore in quanto produttore di materia prima all'interno della filiera e il riconoscimento economico di questo ruolo. L'agricoltore oggi guadagna troppo poco. La filiera non è sufficientemente 'democratica' e non suddivide il valore in maniera equa. La politica deve spingere su questo tema. Noi non possiamo imporre a industriali, trasformatori e distributori di utilizzare materia prima italiana, ma possiamo convincerli, incentivarli, renderli partecipi di un progetto che, restituendo valore alla filiera agricola, dà valore al sistema paese.

Dovremo anche affrontare il tema della Politica agricola comunitaria che verrà, e farlo con attenzione perché sarà la regia dello sviluppo agricolo, ma anche cercare di incidere su quello che si può fare oggi per far funzionare gli strumenti che abbiamo: i Piani di sviluppo rurale che vanno a rilento, l'Agea che mortifica le aspettative degli agricoltori e una riforma della Pubblica amministrazione che non funziona"
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L'agricoltura è sempre più prossima a un processo industriale ad alta tecnologizzazione, eppure l'immaginario collettivo continua imperterrito a idealizzarla come attività monolitica e arretrata. C'è una difficoltà strutturale del settore primario a raccontare se stesso o l'incapacità del grande pubblico ad aggiornare la propria visione è dovuta a un insanabile corto circuito culturale?
"Il settore forse si racconta poco perché è impegnato a fare altre cose, e noi ne stiamo facendo molte. Gli agricoltori sono cresciuti in maniera esponenziale nel campo dell'innovazione tecnologica e oggi, insieme ai colleghi europei, sono all'avanguardia nella riduzione di CO2, metano e fitofarmaci (ridotti di circa il 50% negli ultimi quindici anni), nel ridurre l'impiego di energia, nel produrre energie alternative e nel consumare meno acqua attraverso innovazioni tecnologiche.

Mentre noi siamo impegnati a fare questo, altri utilizzano il nostro mondo per una pubblicità a volte ingannevole. La visione bucolica dell'agricoltura dominata dall'arretratezza, legata a un paesaggio immobile e legato a paradigmi ormai passati non fa bene all'agricoltura, ma non fa bene neanche ai cittadini. L'agricoltura di oggi è migliore di quella di un tempo: più sana, controllata e che dà garanzie a produttori e consumatori. Non si dovrebbero mostrare i contadini con le toppe ai pantaloni, ma agricoltori informatizzati su trattori tecnologicamente avanzati, impegnati a fare prodotti di altissima qualità mantenendo la biodiversità"
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Gli ultimi dati Istat ci dicono però che nel 2013 in Italia c'erano meno di 1,5 milioni di aziende agricole comprese quelle zootecniche, che secondo Unioncamere si sarebbero ridotte a fine giugno 2017 a poco più di 800mila. Stando ai rispettivi siti web, le tre principali associazioni di rappresentanza vantano un totale di oltre 3.000.000 di associati. A prima vista i conti non tornano. Ci aiuta a svelare l'arcano?
"La contabilità è corretta, ma va spiegata. I 900mila iscritti Cia risultano da un libro soci depositato e verificabile, e comprendono le imprese con eventuali famiglie. Se in un'impresa lavora una famiglia di quattro persone iscritte a Cia, per noi si tratta di quattro associati. Discorso diverso vale per le aziende, che si dividono in più categorie: quelle con fascicolo aziendale depositato presso Agea, circa 200mila delle quali sono associate Cia, e le piccole aziende con meno di 300 euro di contributi Pac, che non hanno fascicolo in Agea ma che sono iscritte alla Camera di commercio e hanno partita Iva agricola. I numeri si compongo e vanno letti in questo modo, comprendendo anche quelle imprese che, magari, producono solo un quintale di olio da destinare al mercato. I dati sono eterogenei ma corretti e non 'manipolabili'.

Parlando dell'agricoltura italiana dobbiamo però cominciare a ragionare intorno a campioni significativi. Quando paragoniamo la nostra agricoltura a quella tedesca, ad esempio, spesso non teniamo conto che abbiamo una metodologia contabile diversa. Se applicassimo alle nostre aziende gli stessi parametri usati dai tedeschi per valutare l'inefficienza delle loro, noi dovremmo contabilizzare in Italia non più di 4 o 500mila imprese, ossia quelle che fatturano oltre i 50mila euro. Il valore del fatturato, tuttavia, non deve confondersi con il valore sociale che le piccole imprese hanno nell'ambito dell'area rurale a presidio del territorio. Non sottovalutiamo chi produce e fattura poco, perché rende comunque molto"
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La stragrande maggioranza delle nostre aziende sopravvive grazie ai contributi Pac e storicamente il nostro peso politico nelle decisioni che contano lascia meno tempo di quello che trova, spesso con pesanti ripercussioni per le nostre imprese. Siamo diventati schiavi di una creatura che abbiamo contribuito a creare?
"Oggi l'agricoltura italiana, così come tutta quella europea, senza la Pac cadrebbe in una crisi devastante. Noi dobbiamo innanzitutto finalizzare meglio i finanziamenti della Politica agricola comune. Attualmente l'80% delle risorse dei pagamenti diretti va al 20% dei percettori. Una ripartizione non equa e che andrebbe fatta in modo diverso. Dobbiamo ricordare che Programmi di sviluppo rurale sono nati, percepiti e realizzati per lo sviluppo complessivo delle aree rurali del paese. Attraverso il rinnovamento e potenziamento del sistema agricolo, tutti i cittadini di quelle aree - se parliamo dell'Italia parliamo dell'Appennino centrale, dove vivono circa 9 milioni di persone - devono poter vivere meglio e trovare servizi più adeguati. Nella realtà e dati alla mano, in termini di volumi le risorse del II pilastro sono andate più verso la pianura, dove ci sono aziende più efficienti in grado di attrarle, perché progettano, sono efficienti nell'esecuzione del lavoro, hanno risorse finanziarie proprie o quantomeno maggiore accesso a risorse esterne.

È questo che va riequilibrato: bisogna recuperare lo sviluppo rurale per le aree da sviluppare e i pagamenti diretti per le aziende più produttive, che attraverso il sostegno finanziario riescono a collocarsi sul mercato in modo più competitivo. Questo non significa che le aziende di pianura vanno escluse dallo sviluppo rurale, ma certamente non si può continuare a riservare loro la parte più massiccia delle risorse escludendo quelle meno produttive, con il risultato di renderle sempre meno competitive e più problematiche e di generare una serie di difficoltà complessive; penso al sistema idrogeologico che ha problemi che se non governati a monte, arrivano a valle con effetti devastanti"
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La normativa italiana sull'origine dei prodotti in etichetta arriva alla fine di un percorso pluriennale di richieste e discussioni, ed è stata salutata da un coro di osannanti approvazioni. Poco dopo è stata bocciata da Bruxelles…
"L'Unione europea non ha fatto le cose per andare contro le scelte italiane, ma seguendo un percorso avviato da tempo che è arrivato a una sua naturale conclusione. Parliamo dell'etichettatura volontaria sulle materie prime che compongono gli alimenti.
Noi ci siamo appassionati abbastanza poco a questo tema. L'etichettatura per Cia deve essere una componente di un progetto di promozione, conoscenza, trasferimento di sentimenti, di input per il consumatore dell'agroalimentare italiano e deve comprendere non solo la materia prima, ma anche la trasformazione e la sanità dei processi produttivi.

Questo deve essere il made in Italy che deve vincere sui mercati di tutto il mondo. La materia prima deve essere italiana finché ce ne è, e la scelta della materia prima come valore aggiunto deve essere una scelta commerciale della filiera, che deve essere incentivata in questo senso dalla politica; una fredda imposizione normativa non credo possa funzionare.
Noi siamo per l'etichettatura all'interno di un progetto complessivo che oggi non c'è, e questo ci dà minore forza all'interno dell'Europa. Se l'avessimo compreso all'interno di un sistema approvato e sostenuto da tutta la filiera, probabilmente avremmo potuto sostenerlo più facilmente come modello da seguire"
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La nascita di nuovi mercati esteri, il potenziamento di quelli esistenti e la tutela dei nostri prodotti sembra essere sempre più slegato dalle iniziative imprenditoriali e vincolato alla sottoscrizione di accordi internazionali che, da parte loro, sono sempre più spesso osteggiati dall'opinione pubblica. Quale è la posizione della Confederazione riguardo trattati come il Ceta o il Ttip?
"Una premessa: lo spezzatino dei trattati internazionali è figlio del fallimento del World trade organization; un fallimento che ha distorto i processi della globalizzazione portandola a essere guidata sulle strade indicate dai più forti. Oggi questi trattati non possono essere valutati nell'insieme, ma vanno valutati di volta in volta.

Certo, questi trattati possono essere l'unico elemento per garantire e condividere delle regole che altrimenti difficilmente possono essere imposte con successo. Noi, ad esempio, abbiamo approvato il trattato con il Canada, un paese con cui non siamo in concorrenza per la produzione e che rappresenta un mercato florido e pronto, per motivi etnici e culturali, ad apprezzare i nostri prodotti. Più difficile è dare un giudizio univoco sui trattati con i paesi del Sudamerica o del Nordafrica, con cui siamo invece in concorrenza diretta"
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Nell'ultima campagna elettorale il ministro Martina, testimonial del Partito democratico, ha dichiarato di voler "Azzerare l'uso di pesticidi in agricoltura entro il 2025". Da rappresentante di centinaia di migliaia di agricoltori, come commenta questo indirizzo? Vogliamo veramente tornare all'uso delle mondine?
"I pesticidi non esistono. Ci sono agrofarmaci, diserbanti e via di seguito.
Ritengo si debba migliorare di molto la qualità degli agrofarmaci e lavorare sulla genetica e sulla tecnica meccanica per ridurre il più possibile l'apporto chimico sulle coltivazioni. Bisogna anche migliorare l'organicità del suolo, spostando nelle aree bisognose la sostanza organica presente in maniera eccessiva in alcune zone ad alta vocazione zootecnica: una pratica attualmente vietata.
Si tratta di una serie di azioni che vanno dalla ricerca alle pratiche in campo, che vanno accompagnate da un sostegno all'utilizzo dell'innovazione che consenta gli onerosi investimenti necessari.

Il glifosate su cui si fa un gran dire, ad esempio, è una molecola conosciuta da decenni e dichiarata dalle autorità scientifiche europee molto meno pericolosa di molti altri agrofarmaci. La campagna mediatica che ha indotto anche il nostro Governo a pronunciarsi contro il suo uso è antiscientifica. Noi abbiamo preso una posizione dialettica, anche interna all'associazione, per cercare un'alternativa valida all'uso del glifosate, ma finché questa non sarà disponibile si dovrà poter continuare a utilizzare questa molecola, con le dovute cautele, così come centinaia di altre in commercio"
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Mentre i consumi interni continuano a stagnare, la produzione agroalimentare italiana guarda sempre più ai remunerativi mercati esteri. Qual è la ricetta di Cia per riavviare il mercato interno?
"Quello del mercato interno è uno dei temi su cui ci stiamo misurando. Abbiamo lanciato lo slogan del 'Network dei valori': un progetto in cerca di proseliti per mettere in rete gli agricoltori, i trasformatori di prossimità e i commercianti non legati alla grande distribuzione. Non si tratta di un modello alternativo, ma di un progetto pensato in particolare per le aree rurali interne e per recuperare i consumi legandoli a vantaggi di tipo qualitativo e competitivo. Sono convinto che un simile sistema possa fare concorrenza ai prezzi della grande distribuzione e ridistribuire in maniera più equa il reddito sul territorio. Per mettere in capo questo nuovo meccanismo stiamo avviando una campagna di relazioni che partono dalle rappresentanze e arrivano ai casi singoli.

Altro elemento chiave è il reddito dei cittadini; un tema che non riguarda solo l'agricoltura. Siamo gli ultimi a uscire dalla crisi, abbiamo salari troppo bassi e costi troppo alti, un'amministrazione pubblica che costa troppo; il costo del lavoro per gli imprenditori - e questa è una parte che invece ci riguarda molto - è eccessivamente oneroso, con la conseguente difficoltà di trasferire risorse al lavoratore.
Il mercato interno riparte se le persone hanno più denaro da spendere. Questo è un problema alla soluzione del quale vogliamo partecipare, ma che ovviamente non possiamo risolvere da soli"
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La distanza economica tra prezzo alla produzione e prezzo al consumo continua ad aumentare. Nel mezzo c'è la Gdo che, riguardo questo fenomeno, professa la propria innocenza facendo osservare come nei cosiddetti "mercati contadini" i prezzi al dettaglio siano anche superiori a quelli sul banco del supermercato. Come si dovrebbe intervenire per riequilibrare la filiera?
"Partiamo da una premessa: io credo che tutto sia legittimo. È legittimo che la grande distribuzione - senza la quale non potremmo avere una diffusione così ampia dell'agroalimentare - insegua il proprio profitto, così come i mercati dei contadini, ai quali molti dei nostri associati partecipano con la nostra associazione 'Spesa in campagna'. Tutti i rapporti regolamentati tra produttori e cittadini sono da incentivare.

La questione dei prezzi e della pressione da monte a valle è un problema atavico. La formazione dei prezzi della materia prima, in Italia avviene al contrario: partendo dal prezzo al consumo e andando a ritroso, escludendo i costi legittimi dei componenti della filiera fino alla produzione. Con questo sistema, però, nessuno arriva a chiedersi se il prezzo per l'agricoltore copre i costi di produzione. Io non so se i prezzi della grande distribuzione siano troppo bassi, o se guadagnino troppo o troppo poco, però so che i prezzi della materia prima sono troppo bassi, con la conseguente impossibilità per gli agricoltori di far crescere le loro imprese. Gli agricoltori tendono a reinvestire nelle aziende, acquistando tecnologia e creando posti di lavoro; dare loro una maggiore capacità economica significa alimentare una crescita sicura e generale per la società"
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Cosa vuol dire 'innovazione' in agricoltura?
"Innovazione in agricoltura significa tantissime cose. Non si parla solo della pur importante innovazione tecnologica, ma anche innovazione dei prodotti, che devono andare sempre più a soddisfare le richieste dei consumatori. Innovazione significa produrre alimenti in grado di allargare i limiti della stagionalità e applicare nuove tecnologie di conservazione e di caseificazione, che rispondano alla crescente domanda di elementi salutistici. Innovazione in agricoltura è la somma di tecnologie che ci consentono di essere più vicini alle esigenze dei consumatori, a prezzi accessibili e nel rispetto dell'ambiente e che, possibilmente, portino qualcosa in più nelle tasche degli agricoltori. Per fare questo ci vuole ricerca, divulgazione della ricerca e conoscenza".

Le assicurazioni, da più parti identificate come strumento di tutela ideale, in agricoltura stentano a prendere piede. Perché?
"Innanzitutto perché per avere accesso al sostegno alle assicurazioni contro le calamità naturali siamo soggetti a una serie di vincoli amministrativi che disincentivano l'agricoltore che vuole tutelarsi. Molti agricoltori preferiscono esporsi a rischi piuttosto che affrontare questo mostro burocratico di nome Pai.
Per avere il contributo pubblico sono stati introdotti vincoli assurdi, come quello delle assicurazioni 'multirischio', che portano a dover assicurare i meloni contro il vento o il riso, che si semina a primavera nell'acqua, contro il gelo.

Molti agricoltori preferiscono rinunciare ai contributi e ricorrere a polizze esterne ai circuiti istituzionali, contrattando con le assicurazioni solo le coperture per i rischi effettivi a cui vanno incontro. Questo la dice lunga sulla programmazione del piano nazionale, passato per l'Europa, fatto molte volte solo per tenere in piedi strutture parassitarie e non per migliorare la vita degli agricoltori.

C'è poi il tema della mitigazione del rischio della volatilità dei mercati che è tutto da sviluppare. Il limite del 30% per avere la copertura dei danni era troppo alto e il decreto Omnibus l'ha da poco abbassato al 20. Vedremo se questo sarà sufficiente per far partire questo strumento importantissimo soprattutto per le commodity. Io credo che su questo dovremo lavorare, perché la difesa del reddito deve passare per gli strumenti assicurativi, ma con un livello di appesantimento burocratico ridotto in modo davvero significativo"
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Tasse, burocrazia, cambiamenti climatici, mercati instabili… ci fa una sua personale classifica delle jatture della nostra agricoltura?
"Il peso burocratico dell'amministrazione dello Stato lo metterei tra i primi punti: una calamità pari a quelle naturali.
Segue l'organizzazione delle filiere, con la necessità di rendere più certo il percorso produttivo degli agricoltori. Io non parlo di prezzi fissi: i mercati sono liberi. All'interno di filiere organizzate in modo negoziato, però, è possibile produrre per un mercato che sappiamo esserci, costituito da un settore della trasformazione che sappiamo avere bisogno di un certo prodotto.
Si deve scommettere insieme per aumentare il valore del prodotto, oppure per realizzare economie di scala, ma in ogni caso distribuire in modo più equo le risorse. Credo che questi siano due temi guida: libertà della produzione allentando il sistema burocratico e miglioramento dell'efficienza del sistema attraverso una relazione tra le parti a monte e a valle della produzione. Se la politica sarà in grado di dedicarsi a questi temi, noi avremo fatto un passo avanti anche nella competitività.

Un comparto sostanzialmente dimenticato è quello del florovivaismo, le cui dimensioni e realtà sono per lo più ignorate. Per avere un'idea della sua importanza basti pensare che in Toscana il primo settore per fatturato non è il vino, ma proprio il florovivaismo. Il tema del verde pubblico e dell'incentivazione delle amministrazioni e dei cittadini a circondarsi di verde è un altro di quelli che deve entrare nell'agenda politica. I nostri vivaisti devono trovare una collocazione adeguata nel panorama agricolo nazionale. Se ne parla troppo poco ed è un peccato, perché è un fiore all'occhiello della produzione agricola nazionale.

Aggiungerei anche un maggior presidio sanitario alle frontiere, che oggi sono un colabrodo. La leggerezza o assenza di questo tipo di controlli ci ha portato a importare decine di malattie e a dover affrontare oggi la Xylella per gli olivi, la batteriosi del kiwi, il Black Spot degli aranci, la flavescenza dorata della vite e via di seguito. Abbiamo una serie di problemi imprevisti da affrontare, che potevano essere evitati con un presidio delle frontiere adeguato.

Non credo che si possa vincere difendendosi. Dobbiamo farlo attaccando.
Se è vero - ed è vero - che abbiamo i prodotti migliori del mondo, non possiamo aver paura del mercato. Dobbiamo solo organizzarci e provarci con la tenacia, l'attenzione e la caparbietà che gli agricoltori italiani sanno mettere in campo"
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L'agricoltura vista con gli occhi dei protagonisti del settore.
Per i 30 anni di Image Line abbiamo voluto dar voce ai principali Istituti, Confederazioni e Associazioni che, dall'agrimeccanica all'agroalimentare, passando per la zootecnia, hanno tracciato il quadro presente e futuro del settore primario