Questa estate un gruppo di agricoltori francesi è sceso in strada e ha bloccato l'ingresso alla raffineria di La Mède (nella regione di Bouches-du-Rhone) per protestare contro l'import di olio di palma dal Sud-Est Asiatico. Nello stesso periodo i coltivatori di soia Usa hanno bussato alla porta della Casa Bianca per chiedere rassicurazioni sulla guerra commerciale con la Cina. In Italia invece a protestare sono stati i risicoltori, assediati dal riso proveniente dalla Cambogia, e gli olivicoltori, che temono un'altra tornata di import a dazio zero dalla Tunisia.

Il settore agricolo sembra infatti essere la valvola di sfogo delle tensioni geopolitiche che in questo periodo abbondano e rappresenta il settore 'sacrificabile' quando le relazioni tra Stati si fanno difficili. C'è la percezione diffusa che le aziende agricole vivano una condizione privilegiata, garantita dai sussidi europei e nazionali, e che dunque su di essi possano essere scaricate le conseguenze di problemi nati lontano dai campi. Ma facciamo qualche esempio.
 

La guerra dell'olio di palma

A giugno un centinaio di agricoltori ha scaricato terra e letame davanti all'ingresso della raffineria della Total di La Mède, vicino a Marsiglia. I manifestanti intonavano lo slogan: 'Biocarburanti, non abbiamo investito per importare'. Gli agricoltori si riferivano al via libera concesso dal governo al gruppo petrolchimico francese di importare 450mila tonnellate di olio di palma dall'Indonesia e dalla Malaysia per alimentare la bioraffineria locale, riconvertita alla produzione di biocombustibili.

Ma perché la protesta degli agricoltori? Perché molte aziende agricole francesi si erano riconvertite alla colza per far fronte al crollo dei prezzi su altre colture estensive. Colza che sarebbe dovuta servire per produrre biodiesel, se non fosse arrivato l'olio di palma, più economico. Pura legge di mercato? Non proprio, perché la crisi del settore dell'olio di palma, scatenata dal cambiamento delle abitudini dei consumatori occidentali, ha messo in ginocchio l'economia dei paesi come la Malaysia. Paese che, guarda a caso, sta negoziando un contratto miliardario per l'acquisto di diciotto aerei da caccia Rafale, della francese Dassault. E dunque il governo, per salvare la commessa, ha privilegiato l'olio di palma asiatico a quello di colza locale.
 

Tunisia, olio e terrorismo

Il 18 marzo 2015 due terroristi appartenenti al cosiddetto Stato Islamico entrano al Museo del Bardo, a Tunisi, e aprono il fuoco contro i turisti che stavano visitando il museo archeologico. Muoiono ventitré persone (tra cui quattro italiani). Per la Tunisia è un duro colpo, di immagine ed economico, e infatti i flussi turistici nel paese si riducono notevolmente.

Per sostenere l'economia locale e il governo tunisino, alleato nella lotta al terrorismo, l'Unione europea decide di autorizzare il libero ingresso di olio d'oliva in Europa. L'anno successivo l'export si impenna e secondo i dati Coldiretti nel 2017 siamo arrivati a +199% di import. Al 31 dicembre è scaduto lo status speciale e Tunisi ha già chiesto un rinnovo la cui autorizzazione spetta nuovamente a Bruxelles e conto la quale gli olivicoltori italiani si sono già schierati contro.
 

Tutto tranne le armi, compreso il riso

Per sostenere lo sviluppo dei paesi emergenti l'Unione europea ha lanciato nel 2001 l'iniziativa Everything but arms (tutto tranne le armi) con la quale ha eliminato dazi e quote all'import di prodotti da una lista di paesi. Tra questi figurano anche la Cambogia e il Myanmar (ex Birmania) che superato un periodo di transizione (finito nel settembre 2009) hanno preso ad esportare riso nell'Unione. A rimetterci sono stati i risicoltori nostrani che si sono ritrovati come concorrenti paesi in cui la manodopera è a basso costo e la normativa sull'uso degli agrofarmaci molto più lasca.

Certo, le varietà asiatiche non entrano in diretta concorrenza con quelle nostrane, ma deprimono i prezzi dell'intero comparto e soprattutto riducono il numero di varietà disponibili agli agricoltori nostrani, che producono il 50% del riso europeo. A fine marzo l'Ue ha deciso di aprire una indagine (fortemente voluta da governo e associazioni di categoria) e se dovesse risultare che le nostre aziende agricole hanno risentito del regime Eba allora scatterebbe la clausola di salvaguardia che metterebbe fine per un periodo di tre anni all'import a dazio zero, salvo proroghe.


America First, povera soia

Automobili tedesche, lavatrici cinesi e semi di soia. Che cosa hanno in comune queste tre cose? Sono tutti elementi di una guerra commerciale nella quale a rimetterci, per ora, sono stati solo gli agricoltori. Facciamo un passo indietro. A gennaio 2018 il presidente Usa Donald Trump annuncia una serie di dazi nei confronti di prodotti importati dalla Cina (lavatrici appunto, ma anche pannelli solari e successivamente una lunga serie di beni). Gli Usa si indebitano ogni anno per 375 miliardi di dollari (dati 2017) per acquistare prodotti cinesi e nella nuova dottrina dell'America First le cose devono cambiare.

Pechino però non ci sta e a maggio impone dazi sull'import statunitense, come un 25% di sovrapprezzo sulla soia, di cui la Cina assorbe il 60% della produzione Usa, per un valore di circa 12 miliardi di dollari. Trump cerca di correre ai ripari e convince, obtorto collo, l'Europa ad importare più soia minacciando dazi sulle importazioni di auto (soprattutto tedesche) e nel frattempo stanzia 12 miliardi per aiutare gli agricoltori del Midwest, zoccolo duro del suo elettorato.

Il risultato? A rimetterci sono stati prima di tutto gli agricoltori a stelle e strisce e alla fine potrebbero risentirne anche quelli europei che producono colture proteiche che vedranno scendere i prezzi di mercato a causa dei sussidi extra decisi da Washington.


Agricoltura brutto anatroccolo

Di casi come quelli elencati ce ne sono molti altri, grandi e piccoli (basti pensare alle sanzioni russe). Quello che sembra evidente è che sono gli agricoltori i soggetti su cui la politica scarica costi e inefficienze. Che l'obiettivo sia mitigare gli effetti del terrorismo, aiutare i paesi in via di sviluppo o riequilibrare la bilancia commerciale alla fine a pagare sono gli agricoltori.

Il motivo? Sicuramente la percezione che il settore primario non sia strategicamente importante per l'economia di una nazione, almeno non quanto l'industria o il settore dei servizi. Conta anche il fatto che gli agricoltori sono ormai una fetta sottile dell'elettorato e dunque possono essere scontentati senza subirne le conseguenze. C'è poi la questione dei sussidi. Più un settore è aiutato a livello governativo, più il governo si sente legittimato a usarlo come merce di scambio, anche se poi a pagare sono gli agricoltori.