Eccellente, sopravvalutato, genuino... ehi, ma gli italiani fanno anche vino, non solo vestiti? È vero, la cucina italiana è conosciuta in tutto il mondo e viene apprezzata da tutti, dal Messico alla Corea. Eppure il nostro vino non è così famoso come potremmo pensare, almeno non in tutto il mondo.

Se in Giappone o negli Usa la nostra reputazione è piuttosto affermata, in Cina siamo ancora poco conosciuti e paesi come la Nuova Zelanda o il Cile ci fanno le scarpe. Per esportare di più è necessario fare sistema e promuovere le nostre bottiglie all'estero, ma è essenziale capire come i consumatori percepiscono il made in Italy.

Facciamo una premessa: l'Italia del vino sta andando bene. Nel 2017 le esportazioni hanno toccato la cifra record di 6 miliardi di euro (il 15% dell'export complessivo di food), segnando un più 6,5% sul 2016. In totale mandiamo fuori confine circa 21,5 milioni di ettolitri di vino, con destinazione prevalente l'Unione europea. Tirano anche il Nord America e l'Asia, con la Cina che però si classifica solo ottava con circa 140 milioni di euro, anche se con un trend in crescita: più 29% anno su anno.

"In Europa l'Italia gode di una ottima reputazione. La Germania è il primo mercato di esportazione con il consumatore tedesco che è guidato soprattutto dal prezzo. Il vino italiano viene considerato di qualità e a buon mercato", spiega ad AgroNotizie Michele Shah, consulente all'export originaria di Londra ma trapiantata in Toscana ormai da anni.

Il tema della qualità a buon mercato è certamente il fil rouge che percorre le nostre esportazioni e che ci divide dai francesi, percepiti come i detentori di una qualità d'élite che permette loro di vendere a prezzi alti. A volumi infatti esportiamo più dei cugini d'Oltralpe, ma a valori assoluti siamo battuti.

Guardando al mercato anglosassone è il fenomeno Prosecco a farla da padrona. Finiscono infatti oltre-Manica quattro bottiglie su dieci di questo spumante. "Il Prosecco è ormai diventato una abitudine di consumo per i britannici che lo bevono sempre più spesso al posto della birra", continua Shah. "Il rischio però è che per far fronte ad una domanda in crescita si lesini sulla qualità, una eventualità da scongiurare se si vuole cementare il mercato".

Accanto al fenomeno Prosecco, ormai diventato sinonimo di vino frizzante tout court, vanno bene anche gli altri vini italiani, apprezzati da una clientela educata e raffinata, che cerca emozioni profonde. Come in Germania il consumo è ancora molto legato al prezzo, ma l'acquisto prevalente è nei bar o nei ristoranti, mentre nella Mitteleuropa al supermercato.

Per vendere bisogna poi guardare al packaging. "Al consumatore inglese, come anche a quello nordico, piacciono le etichette minimali, oserei dire di design, in cui sia ben presente l'origine territoriale e i vitigni. In paesi come la Russia invece tirano le bottiglie pesanti, con etichette barocche".

Per il made in Italy le cose vanno bene anche al di là dell'Atlantico. E d'altronde gli Stati Uniti sono il primo mercato di sbocco delle nostre bottiglie. "Il consumatore nordamericano è evoluto, conosce il vino italiano e cerca la qualità. Spesso segue corsi e partecipa alle degustazioni, legge riviste di settore e si informa sempre sul punteggio dato ad un vino da magazine come Wine Spectator", continua Shah. "Negli ultimi anni le abitudini di consumo sono cambiate, dai rossi strutturati, legnosi e alcolici ci si sta spostando verso vini più leggeri, eleganti e fruttati".

La vera sfida è però l'Asia, dove il vino italiano è arrivato dopo molti competitor (ad esempio francesi) e fatica a decollare. "Il made in Italy del vino è conosciuto a Hong Kong, Singapore, Shanghai e in poche altre aree", racconta ad AgroNotizie Marco Milani, Asia sales manager di Zenato, storica cantina di Peschiera del Garda. "Al consumatore asiatico piacciono i vini rossi importanti, mentre il bianco non viene percepito neppure come vino, ma un prodotto di rango inferiore. Chi compra lo fa consapevolmente, è disposto a spendere per la qualità e si informa sulle riviste di settore".

Il mercato asiatico è molto variegato. In Giappone l'Italia ha una lunga tradizione di export e il consumatore locale che beve vino conosce i nostri prodotti. Shanghai, la città più popolosa (25 milioni di abitanti) e ricca della Cina ha fatto passi da gigante negli ultimi anni. "Shanghai ha vissuto una crescita impetuosa e i consumatori che apprezzano il vino italiano sono in aumento. A Pechino l'italian wine è già meno forte e nelle città di seconda o terza fascia è praticamente sconosciuto".

Basta entrare in un supermercato di fascia alta per rendersi conto che ai vini italiani è riservato uno spazio minimo sugli scaffali. Quelli francesi la fanno da padrona e spesso sono comprati come status symbol, magari da portare in dono. Ma in Cina vanno molto bene anche i vini cileni o australiani. "Molti cinesi conoscono l'Italia per la moda o l'arte, non sanno che facciamo anche ottimi vini".

Milani, che in Asia vive ormai da sei anni, è convinto che non ci sia un pregiudizio da parte dei buyer locali. "Comprano dove fanno margini e se il consumatore cinese non sceglie il vino italiano sullo scaffale loro non comprano le nostre bottiglie. Per aumentare l'export serve un meticoloso lavoro di promozione".

"Rispetto ai francesi siamo percepiti come di qualità inferiore e con un brand meno appealing, mentre siamo troppo costosi se paragonati ai vini cileni o australiani. Insomma, dobbiamo migliorare il posizionamento e puntare su nuovi canali di vendita, come l'online", spiega Milani.

Non dimentichiamoci che Jack Ma, fondatore di Alibaba, il gigante dell'e-commerce, nel 2016 visitò il Vinitaly riservando parole di elogio per il settore. L'interesse verso i prodotti italiani dunque c'è, bisogna vedere se il 'sistema paese' sarà in grado di porsi come un interlocutore affidabile. Il ministro Gian Marco Centinaio sembra essere sensibile al tema e pochi giorni fa ha promesso un accordo proprio con Alibaba da firmare durante il suo prossimo viaggio in Cina.