La campagna olivicola 2017-18 ha visto una produzione di circa 430mila tonnellate di olio d'oliva, con un aumento del 135% rispetto agli scarsi volumi ottenuti nella campagna precedente, fermi a 182mila tonnellate. Numeri che però rimangono abbondantemente sotto quelli messi a segno dalla Spagna che nonostante una stagione particolarmente siccitosa ha superato il milione di tonnellate.

Certo, il modello produttivo spagnolo e quello italiano sono molto diversi: uno punta alla quantità, l'altro alla qualità. Il mercato non sembra tuttavia premiare economicamente il prodotto nostrano (complice anche l'import a dazio zero dell'olio tunisino) e i problemi fitosanitari in Puglia, con l'espansione dell'area colpita dalla Xylella fastidiosa, rendono necessaria una riflessione sul futuro dell'olivicoltura italiana.

La Spagna ha fatto la sua fortuna puntando su impianti superintensivi, con densità di impianto tra le 1.200 e le 2mila piante ad ettaro. Un sistema che si basa sulla lavorazione in filari, come per la viticoltura e la frutticoltura, e la completa meccanizzazione di ogni attività culturale, compresa potatura e raccolta delle olive, oggi le due fasi più onerose.

Un oliveto tradizionale
Un oliveto tradizionale
(Fonte foto: Enrico Rovelli - Fotolia)

La ridotta dimensione degli alberi e la forma di allevamento creano una parete colturale che può essere facilmente meccanizzata. Le varietà spagnole Arbequina e Arabosana, come la greca Koroneiki, arrivano a produrre 8-10 tonnellate ad ettaro, ben al di sopra delle 4-5 tonnellate prodotte da cultivar nostrane in impianti da 300 piante/ettaro. La meccanizzazione permette inoltre di raccogliere un ettaro di oliveto superintensivo in appena due ore, con una efficienza cento volte superiore a quella registrata in Italia.

Ma l'olivicoltura superintensiva ha senso nel Belpaese? "Il problema dell'Italia è che abbiamo quasi esclusivamente cultivar vigorose che mal si adattano agli impianti superintensivi. Gruppi di lavoro pugliesi e siciliani stanno lavorando sull'adattare le nostre cultivar, ma ancora con risultati non definitivi", spiega ad AgroNotizie Luca Sebastiani, direttore dell'Istituto di Scienze della vita della Scuola superiore Sant'Anna di Pisa e coordinatore del gruppo di lavoro Olivo e olio della Società di ortoflorofrutticoltura italiana (Soi). "Sono convinto che dobbiamo trovare la nostra via all'aumento della produttività".

Perché non importare le varietà spagnole?
"Introdurre cultivar non italiane significa perdere la tipicità italiana dell'olio, oggi molto apprezzata dai consumatori".

Eppure la Gdo non valorizza la produzione italiana e per avere il marchio made in Italy non è importante la cultivar, ma il paese di produzione...
"E' vero, ma non per questo dobbiamo rinunciare alle nostre varietà. Lo scenario ideale sarebbe preservare le cultivar nostrane, adattandole ad impianti più produttivi. Portare in Italia un modello superintensivo comporta una serie di criticità".

Di quale genere?
"Per fare produzioni superintensive, oltre alle cultivar adatte, che oggi sono quelle straniere, serve disponibilità di capitale, di acqua, di macchine e conoscenze specifiche. Molti di questi fattori in Italia oggi mancano ad eccezione di alcune realtà aziendali che hanno strategie commerciali per la produzione di oli per la grande distribuzione. Le aziende nostrane sono medio-piccole e quindi hanno capitali spesso limitati da investire per realizzare un impianto superintensivo e per integrare verticalmente il ciclo produttivo".
 

Raccolta meccanizzata
Raccolta meccanizzata
(Fonte foto: atti del convegno Com.Si.Ol - Cra-Oli)


Cosa intende per integrazione?
"Le finestre di raccolta delle olive non sono ampie e l'azienda deve disporre di una macchina scavallatrice per la raccolta, che è una macchina costosa. Inoltre, dovrebbe avere un frantoio proprio per ridurre al minimo i tempi che intercorrono tra la raccolta e la frangitura delle olive che vengono maggiormente danneggiante rispetto ad altri sistemi di raccolta. Un'azienda da venti ettari può produrre 200 tonnellate di olive, raccolte nel giro di circa cinque giorni. Serve quindi una macchina organizzativa efficiente".

Qual è allora la 'via italiana' all'aumento di produttività?
"Io credo che allo stato attuale delle conoscenze potremmo utilizzare un modello intensivo, 300-400 piante ad ettaro, che usi al meglio le conoscenze agronomiche oggi disponibili. Un modello, che può sfruttare le nostre cultivar producendo forse meno del superintensivo, ma con buoni risultati economici se si considerano i più bassi costi di produzione e il prezzo superiore dell'olio prodotto".

Ci sono sperimentazioni a riguardo?
"In Italia si stanno facendo delle ricerche utilizzando il modello spagnolo anche in confronto alle varietà italiane, sia all'Università di Bari che di Palermo oltre ad alcune esperienze in aziende private. Tuttavia, non c'è ancora un'esperienza sufficientemente consolidata per avere un quadro definitivo. Vorrei comunque essere ottimista e spero che in futuro questi studi permetteranno di trovare una via italiana all'alta densità, valorizzando le nostre varietà e la specificità dei nostri ambienti".

Quale differenza c'è tra intensivo e superintensivo?
"Nel superintensivo lavori su distanze sulla fila di 1,5 metri o anche meno, nell'intensivo si sale a circa il triplo. Anche nell'intensivo la tendenza è quella di arrivare a lavorare in continuo, e questo impianto è adatto ad un maggior grado di vigore della pianta. Serve comunque una forte preparazione tecnica e un sistema di irrigazione adeguato in modo da sfruttare al massimo le potenzialità produttive dell'impianto".

Che in Italia potrebbe rappresentare un problema...
"Bisogna tenere presente che occorre sostenere con l'irrigazione l'olivo soprattutto nei momenti più critici, come la fioritura negli ambienti aridi, e anche durante lo sviluppo del frutto per non compromettere la produzione".

Il livello qualitativo dell'olio prodotto in impianti intensivi e superintensivi come è?
"E' difficile mettere a confronto l'olio proveniente da cultivar differenti. A livello generale diciamo che l'irrigazione e la fertilizzazione influiscono negativamente sulla qualità dell'olio con una riduzione dei polifenoli. Tuttavia, una gestione accurata dell'oliveto porta a marginalizzare queste differenze, a fronte di un aumento della produttività".

Cosa rischia l'olivicoltura italiana a non cambiare?
"Molte aziende oggi non coltivano adeguatamente l'olivo e si affidano a pratiche tradizionali. Questo tipo di agricoltura non ha futuro. Dobbiamo affrontare la sfida dei cambiamenti climatici, delle nuove patologie e dei nuovi mercati che richiedono una gestione molto più attenta rispetto al passato. Il rischio è che la produzione italiana venga marginalizzata".

Che cosa serve per cambiare?
"Servono capitali per la ricerca e la volontà da parte del mondo produttivo di sperimentare nuovi modelli. Non si può continuare a produrre olio come si faceva cinquant'anni fa".