Lo scorso anno gli Stati Uniti hanno importato dalla Cina beni per 505 miliardi di dollari, mentre il valore dell'export verso il gigante asiatico si è fermato a 135. Uno squilibrio al quale il presidente Donald Trump ha deciso di dire basta. E così ha deciso di dare il via libera all'imposizione di dazi, dal 15 al 25%, su un totale di 1.300 prodotti made in China, per un controvalore di 50 miliardi di dollari. Una sforbiciata che dovrebbe servire a riequilibrare la bilancia commerciale Usa.

Tuttavia la risposta cinese non si è fatta attendere, visto che Pechino lo scorso lunedì ha imposto dazi del 25% su 128 prodotti statunitensi, per un valore di circa 3 miliardi. Poca cosa rispetto ai 50 di Trump, ma significativi. Sono infatti il segno che Xi Jinping non intende restare a guardare mentre Washington adotta misure protezionistiche. Ad essere colpiti sono soprattutto prodotti agricoli come la carne di maiale, la frutta, il vino e l'etanolo, ma anche tubi di acciaio e scarti di alluminio. In totale Washington ha esportato in Cina l'anno scorso prodotti agroalimentari per 20 miliardi di dollari.

Pechino ha messo nel mirino le produzioni agricole per colpire l'elettorato di Trump. L'anno scorso infatti gli Usa hanno esportato in Cina 1,1 miliardi di dollari in carne di maiale che viene prodotta principalmente in Iowa (21 milioni di capi) e in North Carolina (9 milioni). Due Stati che hanno sostenuto in maniera forte l'ascesa di Trump alla Casa Bianca e che potrebbero voltargli le spalle se soffrissero un calo delle vendite.

Ma Trump non sembra curarsi delle minacce di Xi Jinping e a breve potrebbe alzare nuove barriere all'import di prodotti tecnologici made in China con la motivazione (tutt'altro che peregrina) che il Celeste Impero non rispetta la proprietà intellettuale e copia i prodotti Occidentali, da quelli a basso valore aggiunto, come i vestiti, fino alle tecnologie più sofisticate. Pechino allora potrebbe decidere di colpire l'import di soia statunitense che nel 2016 ha garantito entrate per 14,2 miliardi di dollari ai farmer Usa.

"Credo che gli agricoltori e gli allevatori americani siano da lungo tempo preoccupati dal posto riservato ai loro prodotti sui mercati esteri in termini di tariffe, quote e rapporti di scambio", ha spiegato ad AgroNotizie Greg Ibach, sottosegretario all'Agricoltura del Governo Trump, durante il World Agri-Tech Innovation Summit che si è tenuto a San Francisco e di cui AgroNotizie è partner. "Il nostro obiettivo è creare nuove opportunità per gli agricoltori americani. Il presidente Trump sta lavorando su alcune proposte per spingere i paesi esteri a rivedere l'attuale assetto commerciale. Credo che man mano che le discussioni andranno avanti i nostri partner capiranno il valore di queste trattative. Raggiungeremo un compromesso che garantirà robuste opportunità di interscambio per tutti i paesi".

La filosofia dell'amministrazione Trump è semplice: o la Cina aumenta l'import di prodotti statunitensi, oppure i dazi aumenteranno. Un disavanzo da quasi 400 miliardi di dollari l'anno non è più sostenibile. Il rischio, dicono gli analisti, è che sia dia inizio ad una guerra commerciale che alla fine lascerà sul campo molti più posti di lavoro di quelli che potrebbe salvare.

E l'Italia? La situazione è più complessa visto che non sono Roma o Berlino a stipulare accordi commerciali con gli Usa, ma è l'Unione europea nel suo insieme (Ue che per ora è stata graziata dal giro di vite statunitense). Tuttavia la questione di fondo è la stessa. Per Washington esportiamo troppo. Nel 2017 l'Italia ha venduto fuori confine prodotti agroalimentari per 40 miliardi di euro e gli Usa rappresentano il primo mercato non europeo con una quota del 14%.

Insomma, l'Italia esporta al di là dell'Atlantico beni per circa 5,5 miliardi di euro e importa prodotti per poco più di un miliardo. Uno squilibrio che non è passato inosservato all'amministrazione Usa e su cui potrebbe intervenire dopo aver capito come gestire la crisi con Pechino e il modo di approcciare l'Unione europea.

L'Italia può trarre qualche vantaggio da questa situazione? Difficile dirlo. Il nostro paese è un esportatore netto con un saldo della bilancia commerciale in attivo per 100 miliardi di euro. Il rallentamento dei traffici commerciali potrebbe erodere questa quota, anche se il grosso viene fatto all'interno dell'Ue e quindi al riparo dal rischio dazi.

Le aziende italiane, che nell'internazionalizzazione hanno trovato l'ancora di salvezza per superare la crisi del 2009, hanno più da perderci che da guadagnarci. Anche perché il grosso dell'interscambio internazionale è fatto da commodities agricole, sulle quali non abbiamo carte da giocare. Difficile dunque che l'Italia rimpiazzi gli Usa come fornitore di soia di Pechino.

Certo, l'Italia importa a sua volta commodities da fuori l'Unione, come il grano duro dal Canada, la soia dagli Usa e il riso dal Bangladesh. Situazioni che colpiscono duramente i nostri produttori e sono in molti a invocare i dazi. Ma si tratta di accordi presi a livello europeo su cui l'Italia avrebbe dovuto intervenire a monte, tutelando i produttori.

In una guerra commerciale con gli Usa a risentire di un aumento dei dazi potrebbero essere i produttori nostrani di vino, olio, formaggio e pasta che da soli fanno oltre il 60% dell'export italiano negli States. E sono molte le imprese italiane che in questi anni hanno investito negli Usa e che potrebbero veder vanificati i propri sforzi nel caso di un raffreddamento delle relazioni transatlantiche.

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