La Pac e gli aiuti agli agricoltori, la dotazione finanziaria, Trieste porto franco e le nuove dinamiche di vendita sempre più rivolte all'e-commerce. E ancora: la fine delle quote sullo zucchero, le possibilità di collaborazione con l'industria, un data base delle terre coltivabili su scala europea, che parta dal censimento operato dei singoli comuni, e le nuove esigenze della cooperazione, all'insegna di un imperativo: "Non vogliamo più cooperative, ma più cooperazione".

Sono i molti temi toccati da Giorgio Mercuri, presidente dell'Alleanza delle cooperative italiane - Settore agroalimentare (per dare un'idea dei numeri: oltre 5mila cooperative agroalimentari, 800mila soci produttori, 93mila addetti, un fatturato pari a 34,5 miliardi di euro, pari al 25% del valore della produzione agroalimentare italiana) e coordinatore di Agrinsieme, nell'intervista che ha rilasciato ad AgroNotizie.

Presidente Mercuri, partiamo dalla cronaca. Nei giorni scorsi il mondo agricolo si è diviso sul Ceta, l'accordo di libero scambio fra Unione europea e Canada, che in queste settimane dovrà essere ratificato dagli Stati membri dell'Ue, fra i quali anche l'Italia. Agrinsieme, del quale l'Alleanza delle cooperative italiane fa parte, si è dichiarato favorevole. Perché?
"Vede, passare da populisti a realisti non è facile, ma chi ne giova sono i piccoli agricoltori. I piccoli imprenditori non sono quelli che saranno penalizzati dal Ceta, ma potrebbe essere l'opposto, qualora non venisse ratificato l'accordo di libero scambio con il Canada".

Per quale motivo?
"Le faccio un esempio concreto. Un'azienda agricola che ha una superficie di 400, 500 o 600 ettari, che complessivamente riesce ad accaparrarsi un contributo comunitario di 500 euro all'ettaro, ha i soldi sufficienti per vivere. E' una situazione molto diversa dalle piccole aziende agricole, che possono contare su cifre molto inferiori".

Quali opportunità ci possono essere per le piccole imprese agricole?
"O chiudono, ma non mi sembra sia un bell'epilogo, oppure si mettono insieme, sotto forma di rete di impresa, di cooperativa, di organizzazione di produttori. Questo percorso è obbligato, è una necessità per sopravvivere, ma è un primo passo, perché non soddisfa appieno le loro esigenze".

Quale dovrebbe essere il passaggio successivo?
"La valorizzazione del prodotto agricolo. E per fare questo c'è una sola strada da percorrere: l'esportazione. Noi dobbiamo necessariamente rivolgerci con i nostri prodotti ai mercati esteri, a quelli a più alto reddito. Se pensassimo di aggregarci e vendere tutti i prodotti in Italia, non riusciremmo ad ottenere i prezzi che otteniamo all'estero e, a ben vedere, nemmeno a collocare tutta la nostra produzione".

Per questo il Ceta è un buon accordo?
"Sì. Il Ceta ci permette di poter consolidare l'export dall'Unione europea e dall'Italia verso il Canada e di poter contare su un valore aggiunto importante per le nostre imprese. Come possiamo pensare che era meglio prima il rapporto commerciale con il Canada, quando non c'era alcun accordo, mentre oggi grazie al Ceta vengono eliminati i dazi per una lista importante di prodotti?".

Il prossimo 30 settembre terminerà il regime delle quote zucchero. Quali conseguenze prevede in Europa e in Italia?
"Tutte le volte che siamo passati da un sistema di quote a uno libero, non si è mai visto un passaggio indolore. Mi ero insediato da quattro giorni quando l'Unione europea aveva appena detto addio alle quote latte. In un clima di fiduciosa speranza, io fui l'unica campana stonata che preconizzò la possibilità di avere dei problemi".

Scusi, ha una visione protezionistica? E' un nostalgico delle quote?
"Assolutamente no. Come cooperative non siamo certo contro la liberalizzazione, anzi. Ma nel passaggio dal sistema chiuso delle quote al mare aperto del libero mercato, se non è pianificata una fase accompagnatoria in grado di tutelare appunto questo cambiamento nel sistema di produzione, inevitabilmente si inserisce la speculazione. E' una dinamica abbastanza prevedibile ed è un effetto innescato da chi punta ad aggredire la parte che sul mercato è oggettivamente più debole, come è appunto chi produce".

Vi saranno cambiamenti, considerando il settore specifico?
"Sul versante dello zucchero, sono convinto che per l'Italia non cambierà nulla. Abbiamo raggiunto i 35mila ettari coltivati a barbabietole e sono convinto che quella sarà la superficie che manterremo in futuro, anche alla luce del fatto che possiamo contare sull'operatività industriale di una sola azienda trasformatrice e credo che sarà così per il futuro. Sul fronte della cooperazione, Coprob è rimasta sul mercato e sta sviluppando molte strategie di innovazione, dialogando con le aziende agricole e offrendo loro soluzioni per mantenere sul mercato un prodotto di origine italiana, sul quale assicurare un reddito. Con la liberalizzazione dovremo in ogni caso confrontarci con altri paesi che hanno reddito diverso e, come hanno già annunciato, aumenteranno le produzioni".

Di quanto?
"Di quanto, nessuno lo sa. Quello che è certo è che in questi anni le filiere bieticole saccarifere all'estero hanno acquisito quote zucchero italiane che venivano dismesse. Sono dunque già predisposti a produrre di più. Ma sono convinto che il mercato renderà giustizia a queste fasi di transizione dalle quote al sistema senza vincoli. Ritengo che ci sarà un momento speculativo, ma poi il mercato trova sempre il proprio equilibrio. Mi aspetto che, salvo un calo di produzioni dovuto a problemi climatici, ci sarà una ripercussione immediata nel primo anno di liberalizzazione".

Prevede aumenti di prezzo?
"Prevedo una scossa in termini di volatilità, ma abbastanza breve. Sono convinto che il settore reagirà bene e che molto dipenderà anche da quello che comunicheremo ai consumatori. Vedo comunque difficile un aumento del prezzo dello zucchero bianco, soprattutto in un frangente temporale in cui è più facile attrarre i consumatori con la scritta senza zucchero che non con zucchero".

Come vede il futuro della cooperazione in Italia?
"Oggi più che mai la cooperazione ha una chance in più rispetto al passato. Prima era il sistema che permetteva di gestire una parte del processo produttivo. Oggi le cooperative si stanno occupando di tutta la filiera, dalla produzione alla raccolta. La missione di domani sarà quella di ampliare le operazioni".

In che modo?
"Attraverso l'innovazione. Gli strumenti ci sono, grazie ai programmi Agricoltura 4.0 e Industria 4.0. Ma se per la parte industriale è forse più facile, grazie a una maggiore disponibilità di capitali, le Pmi agricole devono strutturarsi, aggregarsi in cooperativa e puntare, come dicevo prima, ai mercati internazionali. Queste sono le basi per una rivoluzione agroalimentare finalizzata a far crescere il comparto europeo e italiano, con il made in Italy che ha ottime chance di vincere, colmando il gap dei costi della materia prima, sul quale non possiamo competere".

Aggregarsi conviene, dunque.
"Indubbiamente sì. Oggi la cooperazione ha un'opportunità in più. Servono dunque azioni politiche, tenendo presente che noi non vogliamo più cooperativa, ma più cooperazione. Riteniamo strategico lavorare per un'ulteriore aggregazione, per sostenere la crescita di Op e per favorire la sinergia di tante Pmi cooperative di mettersi insieme. Magari favorendo un percorso di costituzione di cooperative di secondo grado, che hanno più forza, una visione più ampia e strumenti migliori per il mercato nazionale e quelli internazionali".

Cosa può fare la politica?
"La politica può dare una mano, attraverso provvedimenti nazionali o tramite i Programmi di sviluppo rurale".

A proposito di Psr, come stanno andando?
"Quando parliamo di Psr è utile fare una premessa non polemica, ma noi viviamo un'anomalia tutta italiana: come tutta Europa abbiamo un solo regolamento comunitario sullo sviluppo rurale, ma 21 Programmi regionali e provinciali che lo attuano in modo diverso. Detto questo, il regolamento europeo prevedeva strumenti per favorire e sostenere l'aggregazione in agricoltura e tutte le regioni hanno applicato la norma. Sono state scelte strade diverse per raggiungere lo stesso obiettivo: ci sono regioni che hanno previsto punteggi più elevati per le cooperative nei bandi delle singole misure, altre regioni hanno invece creato i processi di filiera (Pif), in modo da facilitare la costituzione di cooperative o, come ha fatto ad esempio Regione Lombardia, agevolando la nascita di un legame più stretto con l'industria. Quello che è certo è che tutte hanno risposto a un obiettivo: dare più opportunità agli agricoltori che intendono mettersi insieme".

E la risposta è stata positiva, secondo lei?
"Il percorso procede e ci sono risposte. Anche se in alcuni casi c'è stata poca attenzione da parte delle regioni".

Come mai?
"Dare contributi a chi passa dalla cooperazione alle Op non è un grande vantaggio. Ma anche in questo caso la risposta degli operatori c'è, ed è la dimostrazione che, a dispetto della crisi, l'agricoltura continua a vivere e cerca risposte dall'aggregazione, come garanzia di una maggiore remunerazione. Ora servirebbe un'analisi dei Psr, per capire se ha portato benefici duraturi all'aggregazione".

E' possibile ipotizzare collaborazioni fra cooperazione e industria alimentare, magari per dare maggiore forza all'internazionalizzazione?
"Noi siamo fortemente convinti che ci sia la possibilità di collaborazione con l'industria. Non possiamo pensare di considerare l'industria come un acquirente occasionale od opportunista o, peggio, che sia il nostro nemico. Le cooperative stanno stringendo rapporti di filiera con la parte industriale, anche perché è la strada per diminuire lo scontro che viviamo in termini di prezzi. Dobbiamo fare in modo che tutti gli anelli della filiera abbiano un utile. In verità, stiamo già collaborando con l'industria nei settori cerealicolo e delle carni, ma dovremo attuarlo anche in settori come il pomodoro, dove molte nostre cooperative fanno autotrasformazione, ma è ancora poco rispetto al valore nazionale".

Proprio nell'ambito del pomodoro ritiene che potrebbero appianarsi i conflitti con l'industria?
"Sicuramente. Ogni anno ci scontriamo per il contratto di conferimento, invece sono convinto che se adottassimo una strategia comune di valorizzazione del made in Italy sui mercati mondiali, potremmo mettere a punto una strategia comune, vantaggiosa per entrambi. Da parte nostra siamo assolutamente aperti al dialogo".

Si parla molto di origine e di etichettatura. Cosa ne pensa?
"Sono passi in avanti molto importanti, soprattutto per l'Italia, che è conosciuta nel mondo per la qualità del proprio cibo. Ma serve un lavoro parallelo di internazionalizzazione, di comunicazione del made in Italy e di un intero paese, perché siamo conosciuti come Italia e non come singole regioni. Tuttavia, non basta l'origine italiana, ma bisogna offrire un valore aggiunto, che è rappresentato dal territorio, dalla tradizione, dalla cultura. E in questo le cooperative, con la loro presenza capillare e la capacità di dare più valore ai consumatori, sono avvantaggiate. Noi oggi dobbiamo spiegare che cos'è la cooperazione e raccontare l'azienda agricola che c'è dietro, come lavora e come garantisce la qualità. La cooperazione dà la certezza della provenienza della materia prima ed è cresciuta molto, arrivando ad affermarsi anche come brand".

La cooperazione ha aiutato molto nella crescita del singolo produttore, ma è sufficiente?
"Si può fare molto di più. Il mondo produttivo, e quindi parlo dell'agricoltura, è ancora molto individualista. Molte volte è un fatto culturale che si fatica a superare persino con le nuove generazioni".

Come superare tali limiti?
"Un ruolo importante è in capo alle organizzazioni professionali. Bisogna fare squadra, per dare forza agli agricoltori. Se ci limitiamo a dire che il problema sono i prodotti che arrivano dall'estero, non avanziamo di un passo e avremo sempre difficoltà".

Di fronte a importazioni talvolta anche massicce di prodotti agroalimentari, qual è l'atteggiamento giusto?
"Non è certo quello di chiedere più risorse all'Europa. Così non si risolve una debolezza del nostro sistema. Dobbiamo, al contrario, lavorare per indirizzare i produttori sulle nostre filiere agroalimentari, che non per forza devono essere cooperative. Quello che è strategico è individuare diversi progetti in base alle fasce di mercato e su questi progetti ben precisi chiedere l'intervento dell'Ue, in maniera che sia più facile dare valore aggiunto ai nostri prodotti. Le faccio un esempio: il settore vitivinicolo è diventato forte non per le risorse pubbliche, ma perché sono stati stanziati aiuti per missioni precise, come appunto la promozione, e sono state utilizzate per farsi spazio sul mercato.
Il vino aveva un obiettivo: vendere all'estero, perché oltre il 50% della nostra produzione non era collocabile in Italia. Dove abbiamo idee e progetti e dove sappiamo organizzarci, abbiamo risultati positivi. E' il caso del vino, come già detto, ma anche dei formaggi o dell'ortofrutta, dove abbiamo inizialmente sofferto molto l'embargo russo, ma poi abbiamo trovato nuove strade per recuperare quel valore aggiunto che l'Italia non riesce più a dare. Dobbiamo uscire dalla trincea e combattere per trovare nuovi spazi"
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Alla luce dell'acquisizione di Whole foods da parte di Amazon, come pensa che cambierà in futuro il mondo della distribuzione e come la cooperazione potrà rispondere a tali evoluzioni?
"La storia è molto semplice: quello che è avvenuto negli altri settori, un po' alla volta arriverà nell'agroalimentare. Amazon ha acquistato il colosso del settore del biologico perché aveva già un posizionamento e numeri interessanti. Per quanto riguarda la cooperazione abbiamo già un'esperienza molto interessante con il web nel segmento del vino, relativo all'accordo siglato tra la Mezzocorona e Alibaba".

Pensa sia una rivoluzione?
"E' senza dubbio un cambiamento rispetto al passato, ma d'altronde non ci si poteva sottrarre alla domanda di un consumatore mondiale che ritiene le piattaforme online un riferimento per gli acquisti. L'agroalimentare è stato coinvolto in questa nuova formula di vendita, così come altri settori. E sono convinto che vi saranno prodotti che andranno meglio sul mercato online rispetto ad altri, ma anche rispetto alla vendita tradizionale.
Ma, se prendiamo il caso Amazon-Whole foods, non ci troviamo di fronte a soggetti che hanno pensato di rendere neutri i prodotti attraverso l'adozione di private label, manterranno ciascuno la propria identità. E questo sta avvenendo per tutte le imprese che hanno scelto la strada dell'online. Rispetto a questo scenario, anche la Grande distribuzione organizzata dovrà darsi una nuova impostazione. Siamo convinti che in questa agricoltura 4.0 una delle novità saranno proprio i nuovi scenari e i nuovi mercati che da qui al 2025 si metteranno in campo. Dovremo evitare i rischi"
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Di quali rischi parla?
"C'è un rischio di vuoto legislativo sull'online. Dobbiamo lavorarci, l'Ue dovrà fare ancora di più per bloccare le agro-piraterie, anche quelle online. Dobbiamo garantire a tutti di non perdere l'identità del prodotto, assicurandone la provenienza, valorizzandone il brand, chiedendo maggiore responsabilità a tutti i soggetti della filiera e del trading".

La logistica si caratterizza sempre di più per una fase cruciale della filiera.
"Sì. Nella meccanica e nell'elettronica abbiamo assistito a chiusura di negozi e di sedi logistiche e distributive di grandi marchi, perché non c'era più bisogno di fare scorte e avere magazzini. Nell'agroalimentare può avvenire altrettanto. In ogni caso, cambieranno le richieste relative a determinati servizi e a certi strumenti di garanzia".

Trieste è finalmente diventato porto franco: quali opportunità intravede?
"In prima battuta non vedo grandi opportunità. Il settore agroalimentare ha un livello di Iva più basso rispetto ad altri prodotti, che potrebbero trarre un vantaggio migliore da Trieste come porto franco. Certo che potrebbe diventare un vantaggio anche per il nostro settore, magari anche indirettamente, visto che aumenteranno i transiti su quel porto e tale incremento dei transiti aprirà nuovi canali commerciali e implementerà i volumi dei trasporti. Per l'Italia è una grande occasione".

Nell'ottica della Pac post 2020, quali pensa debbano essere le priorità in termini di budget e di azioni? E quali strumenti, alla luce del periodo 2015-2017, dovrebbero essere modificati?
"La battaglia è perché il budget non sia cambiato, anche se l'Europa ci ha portato a pensare in modo diverso. In questi anni i Programmi si sviluppo rurale hanno dato un ruolo al mondo agricolo, che è quello di garantire la produzione e di salvaguardare l'ambiente. Il futuro sta nel dire: se vogliamo che l'agricoltura rimanga viva, da una parte l'agricoltore deve darsi un modello per aggredire il mercato, dall'altro deve salvaguardare e tutelare il territorio".

Azioni che richiedono impegno e sostegno.
"Certo. All'agricoltore che svolge una funzione pubblica sia nella produzione che nella difesa dell'ambiente deve essere riconosciuto un di più, anche in termini economici, perché l'impresa agricola deve pensare a fare reddito e a fare vivere meglio tutti. Quanto al budget comunitario, la nostra missione è far capire all'Europa il grande ruolo che ha l'imprenditore agricolo, nello svolgere il lavoro. Trasferendo il messaggio al mondo civile, perché a volte bisogna spiegare ai cittadini perché si aiuta l'agricoltura. Non è un vezzo. Dovremo allo stesso tempo offrire aiuti all'ambiente, alla salute, alla cura del pianeta, tramite gli agricoltori.
E dovremo sempre di più aiutare i giovani, perché abbiamo bisogno di un vero ricambio generazionale in Italia e in Europa, per far sì che il mestiere dell'agricoltore non venga abbandonato. Tutto questo ci porterà a fare ulteriori investimenti per beni strumentali"
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I giovani rappresentano il futuro.
"Senza i giovani c'è il rischio che le terre vengano acquistate dalle multinazionali, che hanno interessi diversi. Un approccio che non tiene conto dell'occupazione, della redditività, ma anche della distintività, dell'ambiente, del territorio, della sicurezza alimentare sarebbe sbagliato e si tradurrebbe in un danno per tutti noi. Per questo abbiamo bisogno dei giovani e di garantire un passaggio generazionale che permetta ai giovani di imparare, perché essere agricoltori non si impara sui libri".

Come giudica l'istituzione di una Banca della terra?
"La ritengo molto utile e interessante, ma se pensiamo a una sorta di startup e non si studia come dare un futuro a questa idea non darà ritorni efficaci in agricoltura. La Banca della terra è un'operazione straordinaria per censire terre da dare ai giovani. Il rischio è che siano terreni incolti e rimangano tali. Bisogna darli ai giovani, che li conducano insieme ad altri giovani, agevolando il trasferimento dell'esperienza. E credo che anche l'Europa possa agire così".

L'Europa?
"Sì. E' indispensabile una banca della terra europea, per tutelare e ampliare le nostre aziende. Nel mondo c'è tanta attenzione alla terra. Ci sono multinazionali e interi paesi, come la Cina, che cercano terreni e a chi non ha la propria sede in Europa o in Italia, parlo delle multinazionali, poi non è facile imporre regole europee. C'è bisogno di fare un nuovo censimento della terra, compresi i terreni incolti. E dovrebbe essere fatto da tutti i comuni, dalle province, dalle regioni, dalle fondazioni, per capire come mai non sono utilizzati, se può essere valorizzato, impiegato in maniera diversa, destinato ai giovani".