"L'impegno per la produzione di un grano di qualità ha un impatto diretto sulla dieta mediterranea, che l'Unesco ha riconosciuto come uno dei patrimoni culturali immateriali dell'umanità. L'importanza del lavoro svolto da Semina diretta 2.0 si inserisce quindi in un contesto globale".
Così il segretario generale della Commissione nazionale per l'Unesco, Enrico Vicenti, ha salutato il primo GraNotill Day, convegno nazionale su semina diretta e coltivazione del grano duro, patrocinato dal ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali (il 10 ottobre 2016 nella sala dell'Istituto di S. Maria in Aquiro del Senato della Repubblica).
Un evento organizzato da Semina diretta 2.0, associazione impegnata nella tutela dell'ambiente attraverso la promozione della coltivazione cerealicola senza aratura.

Poco praticata in Italia, la semina diretta è una tecnica di agricoltura conservativa che consiste nel non lavorare il terreno, preservando così la sostanza organica e l'ecosistema presente negli strati superficiali del suolo e riducendo sensibilmente le emissioni di Co2.
Tutti benefici acclarati, tanto che nel mondo sono circa 130 milioni gli ettari coltivati con questa tecnica: più o meno il 9% della superficie agricola utilizzata.

"Queste superfici sono però concentrate prevalentemente nel continente americano" spiega Dario Giambalvo, docente di Scienze agrarie all'Università di Palermo e membro del comitato scientifico di Semina diretta 2.0. "In Europa la diffusione è contenuta e in Italia rappresenta meno dell'1% del suolo coltivato".
Come mai? "Mentalità, tradizione o spesso pregiudizi. Ma anche mancanza di politiche che ne promuovano la diffusione e la frammentazione delle aziende che la praticano. Senza contare che alcuni agricoltori non hanno avuto i risultati sperati dal primo anno. La semina diretta richiede meno lavoro e da risultati equivalenti, tuttavia è necessario applicarla correttamente".

Dello stesso avviso Rodolfo Santilocchi, docente di Agronomia all'Università politecnica delle Marche, anche lui membro del comitato di Semina diretta 2.0. Santilocchi ha impostato una prova di non lavorazione nel '93, la prima in Italia, favorendo la diffusione della pratica nella sua Regione: "Nelle Marche ci sono ora circa 200 seminatrici, gli agricoltori risparmiano dai 250 a 350 euro a ettaro e, in media, 100 chilogrammi di gasolio, impiegando meno acciaio e meno gomma".

Ma i vantaggi economici, anche sommati agli evidenti benefici per l'ambiente, non sembrano essere sufficienti per una più ampia diffusione di questa pratica agricola. In buona parte questo è dovuto "alla carenza di informazioni e alla difficoltà di accesso alle stesse" ha spiegato Francesco Zecca dell'Università la Sapienza di Roma.
"C'è poi la frammentazione legislativa dovuta alla mancanza di un coordinamento nazionale della semina diretta".

Sulla stessa lunghezza d'onda Patrizia Marcellini, coordinatrice del settore Grandi colture dell'Alleanza delle cooperative agroalimentari: "L'Italia non può avere venti agricolture diverse. I contributi devono essere armonizzati secondo linee generali e nazionali".
Senza contare che la tecnica, pur essendo "un valido aiuto per l'azienda agricola, non basterà a risolvere i problemi se però non si interviene anche sulla filiera", come fatto presente da Pierdomenico Ceccaroni, della Federazione nazionale cereali alimentari di Confagricoltura.

Condizioni queste che non possono essere superate semplicemente con incentivi statali: "Lo sviluppo della semina diretta, al di là di finanziamenti pubblici che dovranno tener conto dei punti deboli della catena, passa attraverso due concetti - spiega Luca Bianchi, capo del dipartimento delle Politiche per la qualità agroalimentare del ministero delle Politiche agricole - una certificazione della tecnica in azienda e un'accettazione dei suoi vantaggi presso il consumatore. Crediamo comunque nei benefici che la tecnica può offrire ad agricoltura ed ambiente. Può essere una grossa opportunità".