La Nuova Zelanda non è nuova ai primati in campo zootecnico. Con circa 4,8 milioni di abitanti, "l'Italia dell'Emisfero Sud" conta una popolazione di circa 4,9 milioni di vacche da latte e una produzione di 21.392.000 tonnellate di latte nell'annata 2021-2022 (dati: Clal.it), delle quali 18.858.706 tonnellate esportate nel mondo.

 

La Nuova Zelanda ospita sul proprio territorio una delle più importanti cooperative lattiero casearie a livello globale: Fonterra, che con un fatturato di 12,5 miliardi di euro nel 2021 si colloca al sesto posto nella classifica "Global Dairy Top 20" redatta da Rabobank.

 

Altro dato da record: la Nuova Zelanda è uno dei più importanti Paesi esportatori a livello mondiale, avendo un tasso di autosufficienza nella produzione di latte del 680,8% (Fonte: Clal.it), il più alto al mondo. Per non dire dei 26 milioni di ovini sull'isola.

 

Abbiamo citato un po' di numeri perché la notizia che è rimbalzata sui media di tutto il mondo abbiamo la presunzione che sia universalmente risaputa: il Governo neozelandese ha proposto di tassare gli allevatori per le emissioni di gas emesse dagli animali, così da raccogliere fondi da reinvestire nel settore agricolo e, evidentemente, con l'auspicio di alleggerire il peso del comparto zootecnico. L'inedita gabella potrebbe essere introdotta in tre anni e l'obiettivo dovrebbe essere quello di darsi una nuova immagine di sostenibilità, così da favorire l'export.

 

Inevitabile pensare a riflessioni analoghe, avanzate nei mesi scorsi dal Governo olandese e finalizzate a tagliare il numero di capi allevati nei Paesi Bassi nell'ambito della politica di riduzione dell'azoto. Richiesta respinta dagli agricoltori, con tanto di dimissioni del ministro dell'Agricoltura, della Natura e della Qualità degli alimenti, Henk Staghouwer, sostituito dallo scorso 3 ottobre da Piet Adema. L'addio è stato determinato anche dal fatto che Bruxelles non ha concesso deroghe sui massimali di reflui zootecnici consentiti sui terreni olandesi. Insomma, quanto serviva per mettere in stato di agitazione gli allevatori, che hanno manifestato nelle strade e nelle piazze delle principali città olandesi.

 

La parte più verde che ciascuno di noi coltiva più o meno segretamente dentro di sé potrebbe esultare per le azioni che due Paesi agli antipodi geograficamente, ma entrambi caratterizzati da un discreto carico zootecnico, hanno valutato e sottoposto all'opinione pubblica. Ma siamo proprio sicuri che sia la strada giusta e che non siano forse i nostri diabolici folletti verdi a ispirare linee normative eccessivamente assolutiste e, probabilmente, oltre che inefficaci anche controproducenti?

 

Stiamo tenendo adeguatamente conto delle azioni che gli allevatori stanno attuando per contenere le emissioni, a partire dall'alimentazione? Siamo sufficientemente informati degli sforzi compiuti?

 

Non solo. Perché limitarsi ad accanirsi su aree circoscritte, nelle quali è corretto individuare un equilibrio, e non ragionare in termini più ampi? Facciamo un esempio: la Nuova Zelanda è un'isola. Comprendiamo che la propria industria lattiero casearia voglia presentarsi al mondo come una catena di approvvigionamento assolutamente pulita. Ma chi dice che non sia già così? Sulle isole le correnti d'aria sono solitamente più vivaci rispetto ad aree lontane dal mare. Il medesimo discorso potrebbe valere anche per i Paesi Bassi, esposti alle correnti del Mare del Nord. Le emissioni si disperdono, se questo è il problema.

 

Bisogna a questo punto avere coraggio ed essere forse più lungimiranti. Essere veramente verdi, senza farsi irretire dal greenwashing e impostare la transizione ecologica per quello che dovrebbe essere, non per quello che alcuni (magari quelli che si muovono col jet privato) vorrebbero che fosse.

 

Ci frullano nella testa sempre le parole del professor Giuseppe Pulina dell'Università di Sassari, accademico dei Georgofili, impegnato in prima linea a difendere la zootecnia per quella che è: un'attività produttiva. Questo significa che le emissioni ci sono, ma che è forse giunto il momento di guardare avanti, di comprendere i sistemi integrati, di guardare ai bilanci più ampi, allargando l'orizzonte.

 

Se è vero come è vero quello che ci ha spiegato il professor Pulina, e cioè che in futuro il mondo avrà una popolazione sempre più numerosa e che i consumi di proteine nobili aumenteranno, è logico che avremo bisogno di un numero crescente di capi allevati. Niente paura.

Se infatti guardassimo al bilancio delle emissioni in chiave globale? Se non ci fossilizzassimo sulla dimensione puntiforme, ma su una visione almeno continentale?

 

Questo significa che l'allevamento dovrebbe fermare il proprio processo di sostenibilità, di riduzione delle emissioni? Assolutamente no. La linea deve rimanere quella di una transizione ecologica reale, di un'equazione vantaggiosa per l'ambiente, ma senza tralasciare alcuni aspetti fondamentali come quelli che ci dicono che i migliori risultati di economia circolare si ottengono in presenza della zootecnia e non in sua assenza.

 

Eliminare gli animali significherebbe perdere risorse naturali organiche come il letame, con il risultato di un impoverimento del terreno, che potrebbe portare alla desertificazione, oppure costringerebbe ad incrementare il ricorso alla chimica di sintesi (con aumento delle emissioni).

 

Quindi, in sintesi: prima di tassare le emissioni degli animali sarebbe meglio riflettere. Incentivare certamente gli allevamenti a proseguire nella strada della riduzione dell'impatto ambientale, ma con buon senso. Se manca il buon senso e se non si hanno ben chiari i vantaggi della zootecnia, rischiamo di penalizzare lo sviluppo sostenibile e di colpire l'equilibrio stesso del Pianeta. Sbagliando completamente tutto.