La produzione aumenta, i consumi calano e il prezzo crolla. Eccoli qui gli ingredienti della “tempesta perfetta” che si sta abbattendo sul mondo del latte. Nulla di nuovo o di imprevisto. Che sarebbe accaduto lo si sapeva ancor prima che il regime delle quote latte arrivasse alla fine, quasi un anno fa. Non a caso e con qualche anno di anticipo a Bruxelles si discuteva di “atterraggio morbido” per il dopo quote, compito affidato al “pacchetto latte”. Nè l'uno né l'altro hanno centrato il bersaglio e i prezzi sono precipitati. Tanto da rimpiangere le quote latte. Non a caso il Consorzio del Parmigiano Reggiano le ha resuscitate. Il risultato lo si è già visto sul prezzo del Parmigiano, che ha invertito la rotta ed è risalito nelle ultime settimane. Un'idea che è piaciuta anche ad una cooperativa lombarda di allevatori, la Santangiolina, che ha deciso di disincentivare i propri soci a produrre più latte. Ma sono “briciole”, perché l'aumento di produzione di latte riguarda solo in minima parte l'Italia, ma coinvolge tutta la Ue e molti altri paesi grandi produttori.

Più latte nel mondo
Mentre in Italia l'aumento della produzione di latte si è fermato ad un modesto +0,7%, altrove si sono avuti incrementi significativi, come in Germania (+1,6%), Polonia (+2,7%) o Spagna (+2%), per citarne solo alcuni. Scenario analogo lo si riscontra negli Usa, dove la produzione 2015 è aumentata del 1,18%% o in Australia (+1,56%). E i prezzi ovunque scendono tanto che i produttori della Nuova Zelanda, fra i pochi ad aver messo un freno alle proprie vacche, accusano ora i colleghi europei di ingolfare il mercato con eccessi produttivi e prezzi bassi. Agli allevatori europei, scrive Clal commentando la notizia, è imputato il fatto di essere competitivi sul prezzo grazie ai sostegni ricevuti da Bruxelles. Ma gli allevatori europei sono di parere opposto, come dimostrano le contestazioni all'indirizzo del presidente francese François Hollande in occasione dell'apertura del Salone dell'Agricoltura di Parigi.

Il latte in pericolo
Se in Francia la situazione è pesante, in Italia va persino peggio. Il primo marzo è scaduto l'accordo con le industrie che fissava il prezzo a 36 centesimi al litro. Un nuovo accordo è lontano ed ancora più lontana è la possibilità che questo prezzo possa essere riconfermato. Anche l'ipotesi, tratteggiata nelle scorse settimane, di un indice al quale legare il prezzo potrebbe rivelarsi pericolosa. Oggi quell'indice trascinarebbe i prezzi verso il basso. Una situazione che porterebbe molte stalle verso la chiusura. Un pericolo le cui conseguenze vanno oltre l'aspetto economico e sociale. E' sufficiente uno sguardo alla fisionomia della zootecnia italiana per rendersene conto.

Tante piccole stalle
Una recente analisi esposta da Roberto Della Casa dell'Università di Bologna (se ne è parlato anche su Agronotizie) evidenzia che quasi la metà degli allevamenti italiani da latte ha in stalla meno di 15 capi e produce pochissimo, appena il 5,5% di tutto il latte italiano. C'è poi un 9% di allevamenti dai quali escono più di 5 milioni di tonnellate, oltre la metà di tutta la produzione italiana. Si tratta di allevamenti con oltre 115 capi dove la produttività media si aggira sui 100 quintali per capo. Qui si riescono a ottimizzare i costi di produzione e a reggere, pur a fatica, i venti della crisi. Anche grazie alla destinazione del latte verso la trasformazione (circa l'80%) e in particolare alla produzione di formaggi Dop.

Allevamenti e ambiente
La risposta alla crisi potrebbe dunque affidarsi all'aumento delle dimensioni aziendali, dove le economie di scala consentono costi più contenuti e una maggiore competitività sui mercati, italiano e non. E pazienza se gli allevamenti più piccoli chiuderanno i battenti. Guardando con più attenzione ci si accorge però che la crescita delle dimensioni aziendali si scontra con problemi ambientali di non facile soluzione. Gli allevamenti più grandi sono concentrati in tre regioni, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, che insieme raccolgono il 68% del latte italiano. Già oggi questi allevamenti devono fare i conti con vincoli ambientali (leggasi direttiva nitrati) che impongono costi e limiti all'espansione. Per contro la metà dei piccoli allevamenti, quelli a rischio chiusura se la crisi non si risolve, è distribuito in zone di montagna e in aree svantaggiate. Qui la loro presenza, che pur va riducendosi al ritmo del 5% ogni anno, è di grande importanza per la conservazione e la tutela dell'ambiente. L'abbandono degli allevamenti, una fra le poche attività economiche possibili nelle aree marginali, porta come conseguenza il progressivo degrado ambientale ed idrogeologico. I risultati si leggono nelle cronache che accompagnano ogni evento atmosferico oltre la norma.

Le proposte (sufficienti?)
La gravità della situazione non è sfuggita al ministro per le Politiche agricole, Maurizio Martina, che all'ultima Conferenza Stato-Regioni ha avanzato alcune proposte. In estrema sintesi, le soluzioni prospettate annoverano l'etichettatura di origine per latte e carne, un raddoppio degli aiuti “de minimis” per i prossimi tre anni, l'applicazione del pacchetto latte, la promozione al consumo di latte. Tutti buoni propositi, ma che lasciano aperti alcuni interrogativi. Di origine in etichetta se ne parla da tempo, ma Bruxelles ci ha imposto molti dietrofront in altre occasioni. Buona l'idea degli aiuti “de minimis”, ma Bruxelles darà il via libera? C'è da dubitarne. Sul pacchetto latte e i suoi dettami sulle organizzazioni dei produttori, pesa il poco fatto sino ad oggi. Infine la promozione dei consumi. Utile, certo. Purché ci siano i fondi necessari a qualcosa in più di qualche slogan da far passare un paio di volte su radio e televisioni. Ma forse i soldi ce li metteranno alcuni degli allevatori che il mercato sta stritolando. Non è infatti rientrato, come chiesto a più voci, il prelievo di 70 milioni di euro che accompagna la nuova e ultima tranche delle multe latte e che andranno a rimpinguare il “fondo latte”.