Presente in numerose ricette tradizionali italiane, due su tutti la pasta con la pommarola e la pizza, il pomodoro da industria rappresenta una delle eccellenze agroalimentari nazionali. La sua produzione è concentrata in alcune aree ben precise, ove su tale coltura si sono sviluppate competenze solide e filiere articolate che congiungono le industrie di trasformazione con gli agricoltori, tramite le rispettive organizzazioni di produttori e cooperative.

Chiunque apra una bottiglia di salsa, un barattolo di polpa o un tubetto di concentrato sta attingendo a una serie di competenze e professionalità che purtroppo sfuggono ai consumatori, ai quali manca il contatto diretto con chi quei prodotti è stato in grado di fornirli. Al contrario, e forse proprio per tale ragione, gli stessi consumatori risultano facile preda di disinformazione o di banalizzazioni che non rendono affatto merito all'impegno profuso dai vari player della filiera del pomodoro da industria. Impegno atto a garantire prodotti sufficienti per quantità, elevati per qualità e sicuri da ogni punto di vista, sanitario, ambientale e perfino sociale, dato che la componente economica su cui orbita il business del pomodoro da industria ha una considerevole ricaduta anche sul benessere e sulla dignità di migliaia di famiglie italiane.

Per dare voce a tale filiera, AgroNotizie ha quindi intervistato Luciano Simonetti, presidente di Apopa, organizzazione di produttori con sede a Caivano in provincia di Napoli, unitamente a sei fra i più preparati agronomi locali, membri del comitato tecnico del bacino centro-meridionale del pomodoro da industria, ovvero Giuseppe Caruso, Felice Cutolo, Giorgio Iorio, Mario Cardone, Marcello Martino e Michelino Tridentino.
 
 
Quella del pomodoro da industria è una delle filiere meglio strutturate nel panorama agroalimentare italiano, trovando uno dei suoi punti di forza proprio nelle organizzazioni di produttori, con un forte peso complessivo soprattutto delle aree del Sud Italia. Come nascono e come sono strutturate tali associazioni?
"Le associazioni di produttori ortofrutticole hanno una storia più che quarantennale, vedendo nell’aggregazione socio-economica degli agricoltori il mezzo per incontrare al meglio le esigenze produttive comunitarie. Concepite a livello continentale, le associazioni di produttori operarono però da subito su base localistica, spesso su impulso delle organizzazioni professionali agricole, agendo all’interno dell'Organizzazione comune di mercato comunitario a corredo delle produzioni oggetto di sostegno. In seguito assunsero funzioni più marcatamente economiche a sostegno e tutela delle produzioni aggregate conferite dai soci aderenti".

"Tale rivoluzione di ruoli e competenze accompagnarono le OP verso una progressiva modifica delle proprie attività e funzioni, rendendole strumenti economici commerciali della Pac. A oggi la produzione ortofrutticola commercializzata dalle OP rappresenta ormai il 50% del valore complessivo nazionale, realizzata su una superficie di 354 mila ettari condotta da produttori aderenti (ultimo dato 2015 fonte Ismea). La mappa attuale delle OP vede 310 organizzazioni riconosciute sull’intero territorio nazionale, in massima parte concentrati nelle regioni a maggiore vocazione ortofrutticola, come Sicilia, Lazio, Puglia, Campania, Emilia Romagna, Lombardia, Calabria e Veneto. In tutto ciò solo 65 OP hanno attività monoprodotto: tra i più significativi 13 si occupano di pomodoro, 9 di nocciole e 8 di uva da tavola".
 
Le moderne filiere richiedono livelli qualitativi che solo in parte sono legati agli aspetti organolettici, essendo divenuti sempre più importanti gli aspetti residuali e ambientali dei processi produttivi in campo. Per soddisfare tali esigenze in che modo hanno risposto le OP di settore?
Le progressive variazioni intervenute nella società civile hanno ridisegnato la percezione del comparto agroalimentare. Ogni marchio distributivo è quindi intervenuto sui propri interlocutori della trasformazione proponendo, spesso imponendo, propri disciplinari produttivi che per loro natura si diversificavano l’uno dall’altro, risultando sovente in contrasto tra loro. Si viveva perfino il paradosso che la stessa azienda agricola conferente a due o più aziende di trasformazione dovesse osservare metodi e disciplinari diversi. La presa di coscienza di tale condizione portò ad affrontare una prima necessità, cioè quella di dare un’identità univoca al prodotto meridionale anche attraverso uno strumento tecnico operativo studiato a favore di produttori e tecnici di campo".

"Fu cosi che sul finire degli anni '90 si varò il progetto del Disciplinare unico del bacino centro-meridionale del pomodoro da industria. L’iniziativa raccolse velocemente l’adesione della quasi totalità delle OP operanti sul bacino, il quale territorialmente si estende dal sud Toscana a tutta la Calabria. Una volta presa sostanza, il disciplinare vide quindi l’adesione di Anicav (Associazione nazionale industrie conserve alimentari vegetali) che ne condivise la fondamentale importanza, partecipando da quegli anni col suo apporto tecnico e sottoscrivendo in modo congiunto il disciplinare produttivo. Giunti ormai alla revisione 17 del 2017, si conta ormai sulla partecipazione di 24 OP unitamente all’Anicav".
 
Nel frattempo però anche gli orientamenti tecnici su base regionale si sono evoluti e modificati. Come si sono interfacciate le OP nei confronti dei Servizi fitosanitari regionali?
"Le OP compresero presto la necessità di raccordarsi soprattutto coi servizi fitosanitari delle regioni più rappresentative in termini produttivi, come Molise, Puglia, Campania e Basilicata le quali già devono adeguarsi a delle linee guida nazionali e che trovarono anch’esse fondamentale l’interlocuzione col comitato tecnico delle OP, forte delle esperienze di campo maturate. Il disciplinare, sin dal suo varo, ha quindi assunto una notevole dinamicità mostrandosi ricettivo a nuove proposte, ma ponendo la sua massima attenzione alla sicurezza alimentare, risultando per questo più propenso all’eliminazione di molecole oppure l’inserimento di nuove".
 
Questo per gli aspetti fitosanitari. Ma per quelli gestionali e commerciali?
"Il disciplinare non si limita al solo aspetto fitosanitario, dovendosi evolvere di concerto con le dinamiche commerciali ed economiche che condizionano le scelte degli operatori e i costi che essi devono sostenere. Di conseguenza si è cercato di ottimizzare e uniformare sempre più le attività di raccolta e di trasformazione, raffinando sia le tecniche agronomiche, sia i processi produttivi, facendo un crescente ricorso a supporti meccanici moderni".

"La standardizzazione ha portato però anche aspetti negativi. Diverse produzioni caratteristiche e storiche, una su tutte il San Marzano, hanno rischiato l’estinzione, trovando marginali spazi solo nelle cosiddette nicchie di mercato il cui valore è più di ordine storico che economico. Anche a questo l’attività del comitato tecnico ha dovuto prestare particolare attenzione, dedicando annualmente una sezione del proprio disciplinare alle varietà, comunque consigliate e mai imposte, che sulla base di riscontri oggettivi mostravano maggiore rispondenza alle esigenze agroeconomiche".
 
Uno dei primi aspetti trattati è quello delle genetiche utilizzabili in campo. Quali sono i criteri di scelta varietale tali per cui una varietà può risultare o meno nell’elenco del disciplinare?
"In primis, le diverse varietà candidate alla coltivazione vengono valutate in appositi campi dimostrativi. Dopo di ciò si decidono prove su più ampia superfice solo se la nuova varietà possiede requisiti di produttività in termini quantitativi e qualitativi, ovvero colore, spessore della polpa, adattamento alla raccolta meccanica e grado brix. Altro aspetto tutt’altro che secondario, si considerano le tolleranze ad eventuali patogeni, come per esempio le batteriosi e le virosi, questo permette di ridurre i trattamenti fitosanitari a tutto vantaggio di operatori, ambiente e consumatori".

"Dopo tale attenta selezione, nel disciplinare vengono quindi proposte solo varietà di pomodoro che è consigliabile coltivare nel bacino del centro-sud. L’elenco non è però vincolante e vuole solo essere una linea guida per gli agricoltori. I prerequisiti limitativi per l’inclusione in questo elenco sono l’iscrizione nel registro delle varietà vegetali dell'Unione europea, nonché la valutazione nei campi dimostrativi allestiti dai vari produttori di semi, da tecnici e aziende agricole. Il primo requisito assicura l’utilizzo di materiale vegetativo sano, certificato e non ogm. Il secondo requisito consente invece di valutare, prima della loro diffusione, le performance specifiche di ogni singola varietà".

"In tal modo gli agricoltori possono scegliere le varietà che meglio si adattano al proprio areale produttivo offrendo la massima garanzia di resistenza a patogeni spesso endemici in talune aree, come per esempio virosi o batteriosi. Da tutte queste considerazioni si comprende perché il San Marzano, considerato re del pomodoro, non essendo un ibrido ma un ecotipo, per le sue caratteristiche vegetative e per la sua alta suscettibilità a fitopatie e patogeni, a oggi risulta coltivato in un piccolo areale geografico nel quale ancora riesce ad esprimere a pieno le proprie potenzialità produttive e organolettiche, permettendo di ottenere il pelato più conosciuto al mondo".
 
Anche la difesa fitosanitaria è stata armonizzata nel disciplinare. Quale lavoro sta dietro alle liste di prodotti ammessi e quali sono i criteri per i quali un prodotto non può trovare spazio nella difesa fitosanitaria?
"La difesa fitosanitaria è una parte fondamentale e attiva del disciplinare. Fondamentale perché regola e disciplina l’uso dei prodotti, e attiva perché mai statica, viene continuamente aggiornata mediante introduzioni di nuovi prodotti ed eliminazione di quelli meno efficaci oppure portatori di classificazioni tossicologiche poco coerenti con le finalità di salubrità finale dei prodotti. La ricerca in questo campo, come la legislazione del resto, è sempre più attenta e mirata a prodotti più selettivi e meno tossici, oppure che stimolino le difese naturali delle piante".

"A oggi, le molecole presenti in commercio sono passate dalle oltre mille dei primi Anni 90 a circa 300, cioè quelle che hanno superato il severo processo della Revisione europea degli agrofarmaci. Di queste 300 solo 150 sono registrate sulla coltura del pomodoro, ma all’interno del disciplinare di produzione del pomodoro da industria del bacino Centro Sud Italia ne sono state inserite solo 70 che non vengono usate contemporaneamente bensì alternativamente tra loro per evitare il fenomeno delle resistenze da parte di alcuni patogeni".

"La selezione dei principi attivi si basa sul criterio dell’uniformità, in buona sostanza ci si confronta con i servizi fitosanitari delle regioni del bacino, ovvero Campania, Molise, Puglia e Basilicata, e sulla base di criteri scientifici si effettua la scelta dei prodotti da inserire oppure da eliminare, anche in ottica di esportazioni, tenendo conto di quanto chiedono i Paesi importatori in termini di residui. I criteri di scelta sono quindi moderni e razionali e in molti casi per ridurre l’impatto e prevenire alcune problematiche si sta utilizzando dei modelli previsionali che in base all'andamento climatico, sviluppo e localizzazione della coltivazione rendono possibile la previsione dell’insorgere di alcune patologie, per cui facilitano il tecnico e l’agricoltore nella scelta mirata e nell’utilizzo tempestivo del prodotto specifico".

"Tutto ciò induce un miglioramento della qualità del prodotto finale, una riduzione del numero dei trattamenti fitosanitari, una sensibile diminuzione dei costi di produzione per l’agricoltore, che attualmente corrisponde a circa mille euro a ettaro".
  
Uno degli aspetti fondamentali della produzione di pomodoro da industria è la sua maturazione in campo. Un’eccessiva difformità di maturazione causa raccolti meno pregiati da avviare a lavorazione. Per ottenere la massima uniformità di maturazione in campo quali sono gli strumenti previsti dal disciplinare?
"La prerogativa per ottenere il massimo della qualità è utilizzare per la trasformazione una produzione che presenti caratteristiche qualitative uniformi. La trasformazione può infatti solo preservare la qualità, non crearla. Tale risultato deve però essere ottenuto con un costante impegno in campo che parte dalla scelta varietale più idonea alla cura delle coltura dal punto di vista della nutrizione, della difesa e dell’irrigazione. Il disciplinare di produzione del Bacino Centro Sud vieta infatti l’utilizzo di maturanti e in generale di qualsiasi tipo di fitoregolatore".

"La maturazione del pomodoro è cioè affidata, oltre che alle caratteristiche varietali, esclusivamente alle capacità dell’agricoltore e dei tecnici che facilitano tutte le attività biologiche della pianta, consentendo una maturazione uniforme nel pieno rispetto dei ritmi naturali".
 
Si è parlato di aspetti residuali. Quali impegni si sono assunte le OP in tal senso?
"In generale le analisi che vengono effettuate dalle OP sulle produzioni sono sia di tipo multiresiduale,  con le quali vengono monitorati i residui di antiparassitari somministrati alla coltura, sia di tipo microbiologico, al fine di escludere la presenza di eventuali microbi dannosi per il consumatore. Va detto poi che la ricerca delle molecole da rilevare non è limitata solo a quelle autorizzate dal disciplinare, bensì spazia anche su eventuali sostanze attive che il disciplinare non contempla".

"Inoltre dal 2013, per quanto riguarda il pomodoro da industria, le diverse OP si sono impegnate in un lavoro di ricerca dei metalli pesanti, come piombo e cadmio. Le OP, per giunta, effettuano volontariamente molte più analisi del minimo fissato, arrivando anche a un’analisi per ciascun lotto produttivo. Per ciascuna OP lo sforzo economico per poter far fronte a queste esigenze ammonta annualmente a diverse decine di migliaia di euro e in tale sforzo si può essere supportati da progetti nati nell’ambito dei programmi operativi finanziati dalla Comunità europea, quindi sottoposti a severi controlli da parte di enti terzi".