Italia e Spagna, le due realtà europee più significative in tema di pomodoro da industria, che parlano fianco a fianco di problemi, debolezze, progetti e riforme in un incontro di filiera organizzato da Syngenta. Paesi spesso in concorrenza fra loro, ma uniti dalle medesime condizioni del mercato globale, delle avversità e delle normative di comparto.

Il 30 novembre 2016, al fine di analizzare e confrontare gli scenari dei due grandi produttori mediterranei, Syngenta ha organizzato uno specifico convegno a Piacenza, una delle province italiane a maggior vocazione per il pomodoro da industria. Una coltura che nel 2016 avrebbe mostrato produzioni elevate, bassa pressione di avversità rispetto alla media, ma un prezzo conferito agli agricoltori tendenzialmente basso e reputato da molti produttori insoddisfacente. Un tormentone infinito, quello del rapporto prezzi/quantità, il quale non pare destinato a mitigarsi in futuro a meno di apportare le debite innovazioni tecnologiche al comparto.

Il convegno, dal titolo "Pomodoro da industria in Spagna e nel nord Italia. Filiere a confronto su sostenibilità e competitività", ha trovato sede presso il Palazzo dell'Agricoltura, quartier generale piacentino delle principali associazioni agricole e di settore, e ha visto la presenza di alcuni fra i più rappresentativi referenti in materia di genica, normativa ed economia.

Moderato da Adriano Politi di Syngenta, l'incontro è stato aperto da Alessandro Piva, consigliere delegato all'Agricoltura della Provincia di Piacenza a cui è seguita l'introduzione di Riccardo Vanelli di Syngenta che ha evidenziato le strategie della multinazionale svizzera nel comparto del pomodoro da industria.
La  situazione spagnola è stata ampiamente descritta grazie al contributo di Juan José Amezaga O’Farrell, di Integrated Supply Services S.L., il quale ha approfondito gli aspetti produttivi e di mercato della filiera del pomodoro da industria nel Paese iberico.

In Spagna vi è una situazione che non è così buona come potrebbe apparire dall'Italia. Il principale problema che il pomodoro da industria ha nel mondo è la stagnazione dei consumi. Questi sono calati rispetto al 2015 a circa 38 milioni di tonnellate contro una previsione di 43. Dopo il record di 45 milioni di tonnellate del 2009, si è infatti inanellata una serie di quattro anni in calo, parzialmente interrotta da timide riprese, ultimamente disattese.

Scendendo nel dettaglio continentale, il consumo in Europa supera di poco i nove milioni di tonnellate, cioè circa un milione e mezzo in meno del totale prodotto. Quindi non può competere con alcuni colossi come la Cina, per esempio. Non è cioè in grado di collocare i propri prodotti in altre aree mondiali, anche in termini di prezzi che siano concorrenziali. Se a ciò si aggiungono degli stock mondiali di circa 1,8 milioni di tonnellate, lo scenario non promette riprese nel breve. Il problema principale, secondo Amezaga O’Farrell, è la Gdo che obbliga le industrie ad abbassare costantemente il prezzo anno dopo anno.

A titolo di esempio, il ketchup negli Usa, ove esso rappresenta il 45% del consumo finale: fino a 15 anni fa aveva un contenuto di concentrato di pomodoro del 25%, oggi lavorando sul formulato la presenza è scesa all'8%. Stesso andamento lo stanno mostrando tutti i prodotti derivati: questi aumentano nei consumi, ma diminuiscono nell'impiego di materia prima durante le fasi produttive. Se si pensa che in Spagna i produttori di ketchup sono obbligati per legge a utilizzare il 25% di concentrato al 29% di Brix, appare chiaro che la competizione quanto a prezzi è impari. In Germania tale limite di legge però non c'è, quindi basta che il 7% dei solidi totali siano pomodoro e tutto va bene.

Ciò che succede quindi in Europa è che alcuni produttori vadano a produrre nei Paesi dove ci sono normative meno rigorose in termini di contenuti. Nel Vecchio Continente vengono cioè normati residui, lotta integrata, qualità finale, ma solo del prodotto agricolo. Poi arriva l'industria che con quel prodotto ne fa quel che vuole, magari mortificando la qualità raccolta nei campi.

In Spagna la produzione è concentrata per due terzi nelle mani di privati. La produzione è di circa 3,4 milioni di tonnellate. Simile all'Italia la stesura dei contratti, ove vengono fissati qualità, quantità, prezzo. Una particolarità che sarebbe bene imitare anche in Italia: in Estremadura vi è una apposita commissione del pomodoro, che controlla in modo indipendente la qualità del prodotto che entra in fabbrica. Il suo finanziamento è 50-50 fra industrie e agricoltori.

Principalmente, in Spagna si produce concentrato di pomodoro di cui il 75% viene esportato. Il consumo nazionale è infatti molto basso rispetto all'Italia. Cinque anni fa vi era una produzione media per ettaro intorno ai 70 tons/ha, ora si arriva a 90 o addirittura 100, mantenendo più o meno costanti i costi per ettaro. Ciò è il risultato di un grande sforzo in termini di introduzione di nuove varietà, di irrigazione a goccia ed eliminazione degli agricoltori meno produttivi.

Molto dispersiva in Spagna anche la componente di trasformazione: vi sono 25 industrie per 3,5 milioni di tonnellate, mentre in California ve ne sarebbero 20 che di tonnellate ne processano però 12 milioni. In generale, l'Europa in confronto alla California ha una frammentazione spinta sia delle industrie, sia delle aziende agricole. Poche economie di scala, quindi, alti sprechi e vecchie tecniche di produzione.

Ciò che fa paura per la concorrenza sui mercati internazionali sono Cina e California. In Cina, per esempio, vi sono sussidi mascherati sotto mentite spoglie, mentre in California prevale un'elevata produttività. Nel settore del pomodoro da industria cinese, nel 2012 vi sarebbe stata una perdita di 850 milioni di dollari, quindi l'anno successivo la produzione venne tagliata del 50% per ordine del Governo cinese. Ora sono però tornati a produrre come prima grazie proprio ai contributi mascherati.

La via per competere è quindi quella che prevede la concentrazione delle aziende e delle industrie: meno ma molto più grosse e produttive. Si deve aumentare la finestra di produzione, aumentare la produttività. Altro problema è che esiste un solo produttore di sementi di pomodoro, lasciato però anonimo da Amezaga O’Farrell.
 

Tiberio Rabboni, presidente dell'Oi Pomodoro da industria del Nord Italia, a sinistra, e Ivano Valmori, direttore di AgroNotizie, a destra

A Gabriele Canali, dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, è spettato il compito di analizzare il pomodoro da industria nel nord Italia e le nuove sfide per la filiera, impattata negli ultimi anni dal cambio della Pac (2008), con il disaccoppiamento, e poi nel 2015 con la regionalizzazione.

Canali non condivide però la preoccupazione per la Cina, sebbene questa sia insieme alla California un forte competitore internazionale. Il Paese orientale sarebbe infatti una realtà comunque affamata, in cerca di una stabilità interna. La California è invece molto competitiva, pur avendo severi problemi di acqua. Ognuno ha quindi i propri problemi da risolvere.

Il fatto di avere consumatori esigenti, come quelli italiani, consente quindi di essere anticipatori sui mercati. Finalmente, il dollaro forte permette peraltro di essere più competitivi verso gli Usa. E l'Italia ha ben un miliardo e 400 milioni circa di euro di esportazioni.

La filiera del Nord deve però riappropriarsi di una sua vision strategica di lungo termine. Condividere un modo di fare filiera. Stanti così le cose, appare difficile pensare di diventare leader nella compressione dei costi per ettaro. Difficile poi differenziare ulteriormente la proposta commerciale, già di per sé molto ampia.

L'Italia patisce poi di grandi differenze quanto a rese rispetto agli spagnoli (siamo sulle 70 tons/ha) e ciò impatta il costo unitario per prodotto finito raccolto. Grande l'attenzione riservata anche alla sostenibilità, in termini di uso di agrofarmaci, rotazioni, acqua, penalizzando però in parte proprio la produttività. La sostenibilità, infatti, è difficile da spiegare e a volte aumenta costi. Cosa misura una maggiore o minore sostenibilità della produzione del pomodoro? Chi fa cosa e come? Per esempio, l'ente terzo per la misura dei residui visto in Spagna era stato proposto e poi accantonato in Italia: lo possiamo ripristinare come idea anche in Italia?

Servirebbe quindi maggiore attenzione all'innovazione e a definire una nuova strategia competitiva di filiera. Un primo passo potrebbe essere guidare la selezione varietale delle aziende produttrici di sementi, in modo da poter disporre delle varietà più idonee in funzione del prodotto che si vuole raccogliere. In Italia, più che rivoluzioni servirebbero affinamenti ulteriori del buon lavoro già fatto da anni.

Il convegno si è poi concluso con una tavola rotonda moderata da Ivano Valmori, direttore di AgroNotizie. Seduti al tavolo i rappresentanti delle parte agricola e del mondo della trasformazione, come Francesco Mutti della Mutti Spa., Dario Squeri, di Steriltom, Paolo Voltini, presidente del Consorzio Casalasco, Giovanni Brusatassi, presidente Asipo, e Filippo Arata di Ainpo. Infine, ultimo, ma non certo ultimo, Tiberio Rabboni, presidente Organizzazione interprofessionale Pomodoro da industria del Nord Italia.

Dalla discussione è emersa il bisogno di un maggiore equilibrio fra offerta e domanda, fra produttori e trasformatori. L'Oi può però delineare solo le regole con le quali va giocata la partita su accordo quadro, contratti, prezzo eccetera. Per avere regole condivise è necessario infatti che le varie parti trovino un accordo e lo formalizzino all'interno dell'organizzazione professionale, la quale non può di per sé operare in tal senso, per legge.

Obiettivo dichiarato per il 2017: ridurre superfici e quantitativi rispetto al 2016. È una scelta volontaria di autogoverno e un meccanismo di responsabilizzazione verso quell'obiettivo. Ventilata una possibile penalizzazione economica per chi devia dagli obiettivi producendo più di quanto concordato. Entro gennaio si vorrebbe quindi essere già pronti per le scelte colturali 2017.

Il convegno lascia quindi aperti alcuni interrogativi: per alzare la redditività si dovrebbe infatti produrre qualcosa di meno, per avere un prezzo migliore, ma anche coltivare meno terreni per comprimere i costi unitari. Cioè servirebbe una maggior intensivizzazione colturale che permettesse di massimizzare i margini per ettaro. Ma ciò collide con le pressioni normative a favore di sostenibilità e istanze ecologiste, più o meno ragionevoli essa siano. Quindi, a causa di tale stallo, si teme che la situazione fra un anno non potrà essere poi molto diversa da quella presentata oggi. Sorprese permettendo, negative o positive, che clima e mercati vorranno ovviamente riservare.