Fra gli argomenti più cavalcati degli ultimi anni vi sono quelli relativi al microbiota, ovvero la consociazione di microrganismi presente negli apparati digerenti degli animali, insetti e uomo inclusi. Fra i prodotti più studiati in tal senso ricade ovviamente glifosate. Sul tema si è infatti già scritto un approfondimento relativamente a uno studio sulle cozze, dimostrando l'insussistenza del problema, dal momento che le concentrazioni nelle acque marine sono irrisorie rispetto a quelle, altissime, impiegate come al solito nei test di laboratorio.
 
Anche le api, ça va sans dire, sono finite in tale mirino con alcune ricerche che s’intenderebbero dimostrare che l’erbicida è dannoso per il loro microbiota intestinale. Al solito, però, le facili conclusioni si rivelano errate e fuorvianti a un'analisi più attenta. Vediamo perché.
 

Laboratori e realtà: universi sempre più separati

Talvolta le ricerche si rivelano essere degli inscatolamenti di altre ricerche, leggendo ognuna delle quali si deve procedere a ritroso per scoprire la fonte originale dei dati sui quali sono poi stati basati tutti gli altri studi di una tale “matrioska” scientifica. Andando quindi per ordine: in uno studio(1), al momento dato come “in press”, i ricercatori avrebbero raccolto una serie di riferimenti bibliografici sul ruolo di glifosate sul microbiota intestinale delle api. Fra i riferimenti citati compaiono quelli di Motta et al (2018)(2), in cui sarebbero state ravvisate alterazioni al microbiota somministrando alle api sciroppo di glucosio addizionato con 5 oppure 10 mg/L di glifosate. In quest’ultimo lavoro, per giustificare le concentrazioni adottate, si fa riferimento a propria volta a una terza bibliografia che riporta concentrazioni da 1,4 a 7,6 mg/L(3), riscontrate in studi di campo – quarto livello di citazione – effettuati da Bohan et al (2005)(4).

Disorientati da tale walzer di citazioni? Figuriamoci quanto possano essere disorientati dei non addetti ai lavori, come dei giornalisti generalisti che abbiano però l'ambizione di scrivere di agrofarmaci e ambiente senza averne la benché minima competenza.

Fermata la musica e giunti all'origine del disco, i dati reperiti sulle concentrazioni di glifosate nel nettare – cioè quelle che avrebbero dato la stura a tutte le altre argomentazioni sul tema api/glifosate/microbiota – derivano però da indagini svolte Oltreoceano su api fatte bottinare su colza geneticamente modificata, trattata da poco con glifosate. Ciò non ne sminuisce ovviamente la significatività specifica come studio puntuale e locale, trattandosi di colture tolleranti a glifosate. Quindi in sé per sé non sono affatto da rigettare. Che poi quelle concentrazioni "americane" siano dannose o meno, può essere tutto un altro discorso, considerando le molteplici fonti di pressione che gravano sugli impollinatori.

Errore grave invece - se non addirittura deliberata alterazione dei fatti - accusare glifosate di produrre i medesimi livelli di esposizione nelle api italiane o europee, sapendo che di colture resistenti a glifosate nel Belpaese e in Europa non ne vengono coltivate e che le piante ad esso sensibili non possono certo contenere nel proprio nettare quei livelli di erbicida riscontrati nelle Americhe. Un conto è infatti prelevare del nettare da dei fiori di una coltura nettarifera gm appena trattata con glifosate, cui è resistente e quindi non muore. Un altro è adottare come realistiche queste concentrazioni per nettari di piante non gm, incapaci cioè di sopravvivere al diserbante e quindi di raggiungere tali livelli.

Solo una malerba divenuta resistente a glifosate, in modo spontaneo, potrebbe riprodurre tale condizione di tolleranza all’erbicida, ipoteticamente foriera di concentrazioni significative nel nettare dei suoi fiori. Ma si sta parlando di una minima parte di individui in territori ove insiste una maggioranza di piante a glifosate sensibili. Quindi velocemente moriture. Di fatto, bottinando in aree eterogenee, le api nostrane non potranno mai attingere a del nettare avente concentrazioni così elevate di glifosate, come quelle riportate appunto in bibliografia.
 

Glifosate, miele e nettare

Partiamo da una visione d'insieme: fra le analisi residui effettuate a livello europeo, Efsa ne riporta anche di relative alle matrici di origine animale. Per esempio, nel 2018, su 11.549 campioni analizzati 762 erano di miele (6,6%). Sul totale, 10.145 campioni sono risultati con residui non quantificabili (87,8%). Altri 1.202 contenevano residui rilevabili, ma inferiori ai relativi Lmr. Infine 202 hanno rivelato residui sopra i propri Lmr (1,7%). Di questi ben 137 erano relativi a uova (69), fegato (29) e latte (39). Glifosate è stato trovato in soli 9 campioni di prodotti animali, pari allo 0,077% sul totale dei campioni e allo 0,64% sui soli campioni con residui rilevabili. Tutti però nel miele.

Fra i 762 campioni di miele sopra citati, in 601 campioni (78,9%), non sono stati trovati residui quantificabili di alcuna sostanza attiva. In 152 campioni (19,9%) sono stati identificati residui di agrofarmaci pari o superiori al proprio Loq - limite inferiore di quantificabilità analitica - e inferiori all'Lmr, ovvero il limite massimo di Legge. Altri 9 campioni (1,2%) sono risultati al di sopra degli Lmr per almeno una delle sostanze attive contenute.

Quanto al solo glifosate, questo è stato trovato come detto solo nel miele, per nove volte, pari quindi all’1,2% dei 762 campioni analizzati. In 5 casi i residui si sono mostrati sopra i limiti di legge in Europa. Questi sarebbero fissati in 0,05 mg/kg, equivalenti al limite inferiore di quantificabilità di glifosate nel miele. In pratica è come dire che ogni traccia quantificabile analiticamente viene considerata superiore all’Lmr.

Espresso in microgrammi si ottiene un residuo massimo di Legge pari a 50 µg/kg. Ma di fatto, quanto glifosate può essere trovato nel miele, oltre a sapere se è sopra o sotto l’Lmr?

Stando ad alcune ricerche svolte alle Hawaii su miele(5), da utilizzarsi solo a titolo esemplificativo, glifosate sarebbe stato trovato nel 27% dei campioni analizzati e con una concentrazione massima pari a 342 µg/kg, ovvero 0,342 milligrammi con una media pari a 0,118 mg/kg di miele. Valori entrambi sopra ai limiti di Legge europei, ma che permettono di stimare come di glifosate nel nettare prelevato da quelle api vi fossero al massimo 100-150 µg/L (media: 30-40 µg/L).

Tale calcolo è possibile considerando i fattori di concentrazione che sussistono fra nettare e miele. I diversi tipi di nettare possono infatti variare in contenuto di acqua dal 40 al 98%, in funzione della specie botanica e del periodo. Nel miele l’acqua scende poi al 18%. Vale a dire che per diventare miele il nettare viene concentrato almeno fra le due e le tre volte il valore iniziale, più che raddoppiando o addirittura triplicando la concentrazione di eventuali contaminanti.

In sostanza, i valori di 5-10 mg/L somministrati alle api in laboratorio risulterebbero quindi dalle 50 alle 100 volte superiori a quelli che realisticamente possono incontrare le api a fronte delle contaminazioni massime rinvenute alle Hawaii. Adottando invece le concentrazioni medie, gli scenari di laboratorio si posizionano 150-300 volte sopra quelli reali. Il tutto, pensando che solo un quarto delle api hawaiane oggetto di prova avrebbe incontrato glifosate bottinando i fiori. Ulteriore fattore di diluizione, questo, che dovrebbe far comprendere quanto bassa e discontinua sia l’esposizione a glifosate, sia in termini quantitativi assoluti, sia in termini temporali (l’esposizione varia nel tempo), sia in termini spaziali (l’esposizione varia in funzione della zona). Nel frattempo, a modificare la composizione del microbiota possono essere intervenuti molti altri fattori esterni, a partire proprio dalla tipologia di nettare raccolto.

Acrobatico appare quindi accusare glifosate di impattare le api europee, visti i reali livelli di esposizione. Soprattutto in considerazione del fatto che un’alterazione del microbiota non implica necessariamente danni alla colonia nel suo insieme. Al contrario, secondo quanto emerso dallo specifico report di Efsa, la sola pratica dell’affumicatura inciderebbe per il 5,5% sulla mortalità complessiva delle api dovuta alle pratiche degli apicoltori.

Meglio sarebbe quindi posare la lente usata per indagare le pagliuzze e iniziare a guardare le travi, visibili anche a occhio nudo.
Referenze:
1) Leino L. et al (2020): “Classification of the glyphosate target enzyme (5-enolpyruvylshikimate-3-phosphate synthase) for assessing sensitivity of organisms to the herbicide”. Journal of hazardous materials. In press.
2) Motta et al (2018): “Glyphosate perturbs the gut microbiota of honey bees”. PNAS October 9, 2018 115 (41) 10305-10310.
3) Herbert et al (2014): “Effects of field-realistic doses of glyphosate on honeybee appetitive behaviour”. Journal of Experimental Biology 2014 217: 3457-3464
4) Bohan DA et al (2005): “Effects on weed and invertebrate abundance and diversity of herbicide management in genetically modified herbicide-tolerant winter-sown oilseed rape”. Biological Sciences, 01 Mar 2005, 272(1562):463-474
5) Carl. J. Berg et al (2018): “Glyphosate residue concentrations in honey attributed through geospatial analysis to proximity of large-scale agriculture and transfer off-site by bees”. PLoS One. 2018; 13(7).