Una volta è l’acqua, un’altra la birra – e qui almeno si ha un po’ più gusto che con l’acqua – un’altra ancora la pasta. Ovunque ci si giri c’è qualche articolo che rilancia la “notizia choc” del glifosate in qualche matrice, ambientale o alimentare.
Ultima della serie, ma si teme resterà tale per poco, quella apparsa sul sito di Granosalus, un’associazione nata a Foggia nell’ottobre 2016 e autodefinitasi “produttori in difesa dei consumatori”. Già il titolo della pagina web, come si suol dire, la tocca piano: “Lo dicono le analisi: Don, Glifosate e Cadmio presenti negli spaghetti”.
 
Granosalus avrebbe infatti commissionato delle analisi di alcuni campioni di pasta prodotti dalle principali industrie del settore. Cadmio, piombo, Don (la nota micotossina) e, appunto, glifosate le sostanze e gli elementi cercati. Soprattutto il diserbante è ormai divenuto un puntaspilli per chiunque voglia infiggerne uno, anche quando non ve ne sia alcuna ragione per farlo. Non a caso glifosate mai è risultato al di sopra dei limiti di legge in alcun campione preso in considerazione. Anzi, pare essersene tenuto alquanto a distanza.
 
Quanto agli altri “contaminanti” si rimanda a considerazioni di diversa natura, ovvero quelle che vorrebbero i grani stranieri sempre e comunque impestati neri di veleni e solo quelli prodotti in ben precise province italiane sarebbero avulsi da tali presenze. Un modo di comunicare che si spera prima o poi generi i giusti controlli da parte degli organi competenti in modo da separare i produttori seri dai millantatori. Perché di contaminanti tutti “made in Italy” non è che sui grani nazionali non ve ne siano, onestamente.
 

Numeri e limiti

Leggendo i dati delle analisi commissionate da Granosalus si evince come nel campione a marchio Coop glifosate sia stato rinvenuto a 0,013 mg/kg. Poi a 0,033 mg/kg ne La Molisana, a 0,039 nella Granoro 100, a 0,05 nella Voiello, a 0,052 nella De Cecco, a 0,062 nella Garofalo, a 0,102 nella Barilla e infine a 0,11 nella Divella.
 
Sono tanti? È allarme? Dobbiamo rifugiarci nei grani “antichi”, magari bio? Certo che sì, ovviamente, se si fa parte del business nato intorno a questi prodotti di nicchia estremamente costosi. Certo che no se si sanno fare i conti, sia con il glifosate, sia con il portafoglio.
 
Partiamo dal frumento, il cui Lmr per glifosate è pari a 10 mg/kg.
Le partite di grano che l’Italia è obbligata a importare dal Nord America, causa incapacità di produrre abbastanza in patria, stallano al di sotto di tale soglia. Se così non fosse, verrebbero rispedite indietro. Quindi ciò che arriva ai mulini prima e ai pastifici poi va considerato perfettamente commercializzabile e sicuro. Peraltro, senza tali grani mancherebbe all’appello più di un terzo della pasta che oggi abbiamo a disposizione. Una considerazione triste e banale che troppo spesso viene sotterrata da montagne di bieca demagogia populista, figlia di languori protezionisti a unico beneficio di interessi economici di parte.
 
Per comprendere i reali livelli di esposizione a glifosate tramite le pastasciutte, basta infatti effettuare un piccolo calcolo: la soglia ammissibile giornaliera umana per ingestione (ADI = admissible daily intake) di questo diserbante è pari a 0,5 mg per chilo di peso corporeo per giorno (Fonte: Efsa). L'ADI è calcolato dividendo per 100 (si ripete: 100) il valore al quale una molecola è risultata innocua (si ripete: innocua) nei test di laboratorio di lungo periodo su cavie.
 
In altre parole: mangiando un etto del campione di pasta a maggior concentrazione di glifosate, la Divella secondo le analisi di Granosalus, si assumono 0,011 mg, quindi chi scrive, pesando 85 chilogrammi, assumerebbe 0,000129 mg per chilo di peso corporeo. Sarebbe cioè quasi 3.900 volte al di sotto della soglia di sicurezza che già di per sé è un centesimo di una dose risultata innocua nei test.
 
Sobillare paure e cavalcare ipocondrie pare quindi essere divenuto il vero business del Terzo Millennio. Un business che pare permettere a chiunque di scavarsi una fetta di visibilità, ottenendo per tale ragione tessere associative, donazioni e tante altre fonti di lucro che, a quanto pare, non sembrano patire crisi.
 
Auspicabile sarebbe quindi l’applicazione a tappeto dell’Articolo 656 del Codice Penale, il quale recita: “Chiunque pubblica o diffonde notizie* false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l'ordine pubblico, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a trecentonove euro”.
 
Forse in tal caso dalle strategie di marketing di troppi soggetti verrebbero finalmente eliminati gli allarmismi strumentali sui prodotti altrui.
 
* Per notizia si intende un annuncio o un'informazione dal contenuto in ogni caso preciso e riconoscibile.