I circa 1.300 impianti di biogas esistenti in Italia sono perlopiù alimentati con colture dedicate di mais e altri cereali. Tale modello produttivo è stato oggetto delle critiche di una larga fetta della comunità scientifica e diventato il cavallino di battaglia dei "comitati del no" e dei gruppi ambientalisti. La Commissione europea e, di conseguenza, il Governo italiano hanno fatto marcia indietro sulle normative che premiavano tale modello, limitando l'utilizzo delle colture dedicate nella legislazione più recente.
   
L'industria del biogas, però, non sembra affatto disposta a rinunciare a promuovere impianti sovradimensionati, quindi inadatti alla taglia media dell'azienda agricola italiana. Ciò si spiega con la massimizzazione dei profitti dei costruttori, più legata alla quantità di metri cubi di cemento colato negli impianti, che alle buone pratiche ingegneristiche o alla sostenibilità del sistema.

La conseguenza del sovradimensionamento degli impianti di produzione di biogas è la caccia alla biomassa, poiché le deiezioni zootecniche disponibili localmente non bastano per assicurare la piena potenza dell'impianto. In aggiunta, le paranoiche normative in materia non consentono l'utilizzo di molte biomasse abbondanti e a costo zero, perché considerate "rifiuti" e quindi ricadenti nel diritto ambientale (si veda Il punto della situazione sul Decreto Effluenti). In questo contesto si evidenzia la necessità di definire una dieta veramente sostenibile dei digestori.
 

La proposta del Cib

La dieta proposta dal Cib (Consorzio italiano biogas) si basa sul criterio delle doppie colture: una coltura invernale di copertura che integra quella convenzionale estiva, senza necessità di irrigare o fertilizzare, grazie alle condizioni di umidità favorevoli. Tale pratica è già applicata da molti agricoltori italiani.

L'utilizzo di doppie colture con tecniche agronomiche innovative - come la minima lavorazione, la fertirrigazione ed il precision farming - secondo i suoi fautori è un modello diffondibile vantaggiosamente in molte regioni italiane e perfino all'estero. Il modello studiato e promosso dal Cib, nel più puro stile "markettaro", con tanto di marchio registrato Biogasdoneright® (biogasfattobene), consiste nel coltivare mais estivo (dedicato al foraggio) e triticale come coltura di copertura invernale, da insilare e destinare al digestore. Alla fine del ciclo, il digestato ritorna al suolo come fertilizzante.

Secondo un'analisi del ciclo di vita (Lca) condotta dalla società olandese Ecofys - incaricata dal Cib - le emissioni di CO2 imputabili alla produzione di biometano dipendono dallo scenario di produzione analizzato: digestione di monocoltura estiva di mais, mais a doppio raccolto e, infine, di mais seguito da triticale come coltura di copertura.

La Figura 1 illustra i risultati ottenuti dal menzionato studio.

 
Grafico emissioni di anidride carbonica associate alla produzione di biometano in funzione dello schema di coltivazione delle biomasse
Figura 1: Emissioni di CO2 associate alla produzione di biometano in funzione dello schema di coltivazione delle biomasse
(Fonte dei dati: Studio Ecofys, elaborazione grafiche dell'autore)
 
A scopo di comparazione, il valore assunto dall'Ue come riferimento delle emissioni dei combustibili fossili è 83,8 g CO2 eq./MJ termico. Lo studio del Cib evidenzia che la codigestione di insilato con letame comporterebbe addirittura emissioni negative, in quanto la digestione del solo letame corrisponde un "bonus" pari a -111,9 g CO2 eq./MJ termico.
 

L'analisi critica

Certamente, lo sforzo del Cib per promuovere pratiche agroenergetiche sostenibili è lodevole; e i numeri sembrano dimostrare che il biometano comporta minori emissioni climalteranti dei combustibili fossili, perfino nel caso più sfavorevole di monocoltura di mais.
Tuttavia, per dovere di informazione verso i nostri lettori e lettrici, segnaliamo le seguenti perplessità sul metodo utilizzato dai consulenti olandesi:
  • La Lca applicata solamente alle emissioni di CO2, con qualche superficiale accenno all'Iluc (Indirect land use change, cambiamento indiretto della destinazione del suolo) e alla qualità delle acque è riduttiva, nonché fuorviante. Per essere completa, quindi utile, la Lca dovrebbe analizzare almeno una decina di fattori, come ad esempio la fitotossicità e la tossicità equivalente per la popolazione umana e gli aspetti sociali, quali occupazione e incidenza sui prezzi locali, ecc.
  • Sembra un po' fuorviante analizzare l'Iluc in un territorio fortemente antropizzato e sfruttato dall'agricoltura intensiva, come avviene nella provincia di Cremona, dove sorge l'impianto assunto come modello e, infine, presentare tale dato come estrapolabile per altre realtà.
  • Lo studio della Ecofys non fa alcun riferimento alla norma ISO 14040, che è lo standard internazionale su cui si basa la Lca.
  • Lo studio è centrato su una sola azienda agricola, mentre in realtà sono quasi 1.300 quelle che compongono il parco italiano dei digestori anaerobici. L'azienda presa in esame possiede 255 ettari e 650 vacche e, a quanto pare, coltiva le biomasse con tecniche di agricoltura di precisione. Secondo dati Istat 2016 il numero totale di bovini era 5.773.000 capi. Il totale di allevamenti bovini all'ultimo censimento (2007) era pari a 145.282 aziende. Quindi la consistenza media nazionale si attesta attorno ai 40 capi per azienda.
    Pertanto, non è di certo corretto sostenere che l'azienda studiata nel rapporto Ecofys costituisca il perfetto "campione rappresentativo" delle aziende agricole italiane. Essa costituisce indubbiamente un modello virtuoso da imitare, ma dai dati Istat precedentemente presentati si desume che poche aziende agricole italiane sarebbero nella posizione di poter adottare le stesse pratiche.
  • Lo studio si riferisce alla produzione di biometano, senza considerare che in realtà gli impianti di biogas italiani, compresa l'azienda agricola in esame, sono destinati alla generazione elettrica. Pertanto, le emissioni di CO2 per MJ di energia generata sono almeno 1,66 volte più alte del valore riportato nello studio. Ciò dipende dal fatto, inevitabile, che il 60% dell'energia ricavata dal biogas viene dissipata sotto forma di calore. Bisognerebbe inoltre considerare l'incidenza negativa dovuta all'autoconsumo elettrico dell'impianto, circa 10% in più.
  • Il "bonus" di emissioni - applicato alla codigestione con letame - è calcolato con una formula che considera il biogas totale come la somma proporzionale dei Bmp (potenziali metanigeni) dei singoli componenti dell'alimentazione. Il presupposto adottato per il calcolo è falso (si veda un esempio della vita reale in 2+2 non sempre fa 4 negli impianti di biogas) quindi in termini logici, i valori calcolati con tale formula saranno falsi.
  • Il "bonus" di emissioni si basa su un rapporto della Ce basato, a sua volta, su "valori medi EU 27" e perciò non necessariamente applicabili alla realtà italiana, e tantomeno al resto del mondo. Di conseguenza, il modello del Biogasdoneright non è "esportabile", come invece affermano i suoi fautori (si veda questo link). Pertanto, siamo di fronte ad una logica doppiamente fallace.
  • Lo studio in questione non analizza minimamente il margine di errore, o incertezza, dei risultati pubblicati, come se questi fossero assoluti ed inamovibili.
 

Studi indipendenti

Il giornale Energy ha pubblicato uno studio intitolato The environmental effect of substituting energy crops for food waste as feedstock for biogas production (L'effetto ambientale della sostituzione delle colture dedicate con scarti alimentari) condotto dalle dottoresse Lucía Lijó, Sara González-García, Maria Teresa Moreira (Università di Santiago di Compostela, Spagna) e il dottore Jacopo Bacenetti (Università di Milano).
Lo studio è stato finanziato con fondi erogati da diversi enti spagnoli ed europei.
L'autore ringrazia Jacopo Bacenetti per aver gentilmente fornito una copia dello studio, nel quale sono state comparate le Lca di due impianti di biogas di identica potenza, 1 MW elettrico, entrambe realizzate secondo la norma ISO 14000 di riferimento. Il metodo di calcolo utilizzato fornisce un margine di incertezza minore del 5%.

L'impianto chiamato "A", utilizza letame e liquami in piccole proporzioni e insilati di mais e triticale come alimento principale. L'impianto chiamato "B" è per il 75% alimentato da Forsu (frazione organica dei rifiuti solidi urbani) scarti alimentari e liquami suini, nonché con una piccola frazione di silomais. Poiché entrambi gli impianti dissipano il calore in atmosfera, come la maggioranza degli impianti italiani, le emissioni di CO2 vengono imputate al 100% alla produzione elettrica. L'impianto B produce più digestato di quanto sia richiesto per la coltivazione del mais. In questo caso, l'impianto è penalizzato dalla "esportazione" del digestato ad altre aziende, per le quali il suo apporto di P e K non è rilevante. Inoltre, le emissioni dell'impianto B sono ulteriormente penalizzate da quelle dovute al trasporto della Forsu dalla fonte all'impianto. Nell'impianto A l'insilato è prodotto e consumato nella stessa azienda agricola.
In entrambi i casi lo studio considera anche le emissioni associate allo spargimento in campagna del digestato, comparate con una concimazione chimica equivalente.

I fattori ambientali analizzati nella menzionata Lca sono stati: l'effetto sul cambio climatico, l'effetto sullo strato di ozono, l'acidificazione del terreno, l'eutrofizzazione dei corpi d'acqua, l'eutrofizzazione del medio marino, la formazione di ossidanti fotochimici e il consumo di risorse fossili. 
Comparando le Lca dei due impianti risulta che l'impianto A ha un maggior impatto ambientale, essendo la coltivazione del mais estivo la principale responsabile.
Nell'impianto B la miscela di Forsu e deiezioni zootecniche hanno influito in minore proporzione sui singoli fattori ambientali. Il maggiore fattore di impatto ambientale dell'impianto B è dato dalla più alta concentrazione di ammonio nel digestato rispetto all'impianto A, conseguenza di un maggiore utilizzo di deiezioni zootecniche.

La Figura 2 riporta i risultati dei calcoli delle emissioni di CO2 di entrambi gli impianti. A titolo comparativo, le emissioni di CO2 associate alla generazione elettrica in Italia nello stesso periodo erano pari a 420 kg eq. CO2/MWh (117 g eq. CO2/MJ elettrico).
 

Grafico analisi comparativa delle emissioni di anidride carbonica di due impianti di biogas, uno alimentato prevalentemente con insilati e l'altro con deiezioni animali e Forsu
Figura 2: Analisi comparativa delle emissioni di CO2 di due impianti di biogas, uno alimentato prevalentemente con insilati e l'altro alimentato con deiezioni animali e Forsu
(Fonte: Op. cit., elaborazioni grafiche dell'autore - fattore di conversione: 1 MWh = 3.600 MJ)
                 
Lo studio ispano-italiano ha anche tenuto conto di un problema tipico delle Lca, ancora non risolto dalla normativa: i risultati possono variare a seconda del protocollo di calcolo adottato. Di conseguenza, i ricercatori hanno realizzato un'analisi di sensibilità per verificare l'entità di tali variazioni, confrontando tre protocolli internazionalmente riconosciuti con quello utilizzato per lo studio di base e formulando proposte di miglioramento della metodologia.  
 

Conclusioni

Sebbene sia intuitivo pensare che l'utilizzo di una coltura di copertura - a scopo energetico - sia più sostenibile rispetto alla produzione basata sulla sola coltura dedicata di mais estivo, il biogas prodotto in tale modo non sembra essere del tutto "fatto bene" e lo studio che dimostrerebbe i vantaggi ha alcune lacune.

Per la sua propria natura di "chiusura del ciclo" della materia organica, la digestione anaerobica è 100% sostenibile solo se sfruttata in impianti di piccola taglia, distribuiti capillarmente, alimentati esclusivamente con deiezioni zootecniche e materia organica residuale - agricola e non - a "km 0" o quanto meno con il criterio di "filiera corta", e producendo biometano per rimpiazzare combustibili fossili.
Purtroppo l'industria del biogas continua a voler imporre il modello tedesco, basato su impianti da 1 MW, anziché investire in ricerca per rendere più economici gli impianti di piccola taglia. A ciò si somma il fatto che la classe politica non si decide a semplificare gli adempimenti burocratici, eccessivi per impianti di piccola taglia.
Altra lacuna nella normativa è la classificazione come "rifiuti" di materie che sono vere risorse rinnovabili - fanghi, Forsu, scarti mercatali, scarti dei macelli - in base a dogmi politici privi di base scientifica, mascherati da "principi di precauzione" e di "tutela ambientale".

Per concludere, se l'utilizzo di tali risorse di scarto venisse liberalizzato, con norme chiare e razionali, si avrebbero dei netti benefici ambientali in termini di miglioramento della qualità dei nostri suoli, ormai a rischio desertificazione, e benefici anche in termini di riduzione del costo dei carburanti e delle tasse di smaltimento dei rifiuti, a vantaggio degli agricoltori e dei cittadini.