Tutti sanno, o possono facilmente verificare, che il Paese con maggiore numero di impianti di biogas è la Cina. Mentre pochi sanno che, oltre a impianti colossali per il trattamento della Forsu delle megalopoli cinesi, ci sono circa 50 milioni di piccoli impianti limitati alla produzione di biogas per autoconsumo domestico.
Il principale utilizzo del biogas nelle famiglie rurali cinesi è la cottura dei cibi, talvolta  la microgenerazione di elettricità con gruppi elettrogeni di piccola potenza e più raramente ormai, anche l’illuminazione con apposite lampade a biogas, simili a quelle utilizzate in Europa dai campeggiatori.

I digestori, invariabilmente interrati, lavorano in psicrofilia con una ritenzione di oltre tre mesi di durata. Da qualche anno è in aumento la varietà dell’offerta commerciale di piccoli digestori prefabbricati (realizzati con membrane polimeriche o in plastica stampata), interrati o semi-interrati. Alcuni modelli sono posti all’interno di serre prefabbricate, lasciando presupporre migliori prestazioni rispetto ai tradizionali digestori psicrofili, ma tale accorgimento comunque non garantisce la stabilità nel tempo della temperatura ottimale. In tutti i casi, i mini-digestori risultano sprovvisti di sistema di agitazione dei liquami.

L’India è un altro Paese in cui, da alcuni decenni, le politiche hanno spinto le famiglie rurali al raggiungimento della propria autosufficienza energetica mediante la digestione domestica dei resti di cucina e del letame bovino. Purtroppo, per il momento, non ci sono statistiche disponibili, possiamo solo ipotizzare che il numero di mini-impianti di biogas sia dello stesso ordine di grandezza di quello della Cina.

Da un punto di vista squisitamente ambientale, l’autoproduzione di biogas, o meglio ancora di biometano, è il sistema più sostenibile e facile da implementare per avanzare verso un’economia circolare e decarbonizzata. Tale modello di sviluppo tende a minimizzare le emissioni di gas serra, proprie della decomposizione incontrollata dei rifiuti organici, elimina la necessità di trasportare e trattare i rifiuti in impianti centralizzati, con i conseguenti risparmi economici e di emissioni climalteranti, ed infine elimina il trasporto del digestato, o del compost di ritorno ai campi, riducendo o eliminando nel contempo il consumo di fertilizzanti chimici.

Il potenziale italiano dei minidigestori
Va ricordato che la maggioranza delle aziende agricole italiane sono piccole: stando all’Istat, il 50% degli allevamenti bovini ha meno di 20 capi e 8 ha di Sau, per un totale di circa 124.000 allevamenti.
Nonostante i molteplici benefici che l’autoproduzione di biometano potrebbe comportare alle piccole aziende agricole ed alla società civile in generale, sia in termini ecologici che economici, nessun Governo italiano, ma neanche di altri Paesi europei, con qualche eccezione a livello regionale in Germania ed Austria, ha mai preso in considerazione l’incentivazione della conversione dei trattori a gasolio a biometano, e nemmeno l’autoproduzione di quest’ultimo. Il commento abituale delle banche, costruttori di impianti e politici è: “Gli impianti piccoli non sono redditizi”.

Se analizziamo il potenziale energetico dell’allevamento italiano più frequente, otteniamo però i seguenti numeri:
  • 20 capi, Sau = 8 ha (50% degli allevamenti italiani, secondo Istat 2011).
  • Consumo di gasolio nelle attività zootecniche: 64 l/Uba * 20 = 1.290 l/anno (secondo le tabelle Avepa, (Agenzia veneta per i Pagamenti in agricoltura).
  • Consumo di gasolio per le attività colturali (foraggi) = 270 l/ha x 8 = 2.160 l/anno  (secondo le tabelle Avepa).
  • Pci del gasolio = 42,7 MJ/kg ~ 35 MJ/l, quindi il consumo energetico totale, in termini di combustibili fossili, ammonta a 120,750 MJ/anno.
  • Potere calorifico inferiore (Pci) del CH4 = 35,8 MJ/Nm3 (secondo Uni 10458), quindi ogni Nm3 di biometano equivale a circa un litro di gasolio.
  • Produzione potenziale netta di CH4 ~ 11.680 Nm3/anno (solo letame e lettiera di paglia).
Pertanto, la tipologia più diffusa degli allevamenti italiani è perfettamente in grado di soddisfare il proprio fabbisogno di gasolio con metano autoprodotto, ed inoltre avanzerebbe l’equivalente di 8.230 litri di gasolio/anno, da utilizzare nell’abitazione dell’allevatore, per il suo mezzo di trasporto privato, o magari anche per vendita degli eccedenti a terzi.
Come si spiega allora che i piccoli impianti siano considerati “non redditizi”? Semplicemente perché non sono redditizi per i costruttori di impianti, in quanto perfettamente autocostruibili, con elementi prefabbricati o semplicemente modificando le vasche di raccolta liquami che ogni allevamento ha già, e in linea di massima sono anche autofinanziabili dagli stessi allevatori, senza ricorrere alle banche.
 
Appare evidente che, da un lato, costruttori e banche stanno tentando di disincentivare i mini-impianti, mentre dall’altro, la posizione della classe politica è, a dir poco, aberrante: anziché eliminare le barriere normative, in modo da incoraggiare la costruzione di impianti di biometano per autoconsumo, che in linea di massima non inciderebbero sui conti pubblici, i Governi di tutti i colori politici protraggono da anni la sovvenzione al gasolio agricolo.
Se consideriamo che il prezzo di mercato del gasolio è pari a 1,20 euro/litro e quello agevolato costa 0,70 euro/litro, la differenza che i contribuenti pagano con le tasse per supportare la categoria degli allevamenti considerata in questo studio, è pari a 207 milioni di euro (120.000 allevamenti x 3.450 litro/anno x 0,5 euro/litro di sovvenzione).

Vediamo ora quanto gettito fiscale potrebbe generare lo Stato se applicasse una politica di incentivo agli impianti di biogas per autoconsumo, intendendo per incentivo semplicemente “eliminare la burocrazia e le sovvenzioni al gasolio”.
Il costo di costruire un mini-impianto di digestione “tipo cinese”, migliorato con agitazione e riscaldamento a biomassa, di modificare il motore del trattore, di installare una piccola unità di purificazione e compressione del biometano, si può estimare in circa 50mila euro Iva esclusa. Considerando che la pressione fiscale su tale costo è pari al 53% (secondo un servizio della Rai), ogni mini-impianto costruito frutterebbe allo Stato poco più di 25mila euro di tasse.

Il gettito potenziale corrispondente alla categoria di allevamento presa come esempio in questo articolo, sarà dunque pari a 3 miliardi di euro (120.000 x 25.000 euro). Dal punto di vista dell’allevatore, dovendo pagare a prezzo di mercato il gasolio, sia per uso agricolo che per il riscaldamento della propria abitazione, l’investimento in un mini-impianto di biometano e nella conversione dei motori del trattore e della propria auto, si può recuperare in 5 anni.

Conclusione
Lasciamo al lettore decidere se la mancata attuazione di politiche tendenti a favorire l’autosufficienza energetica del comparto agricolo sia il risultato di azioni lobbistiche di banche e di grandi gruppi industriali, o più semplicemente dell’ignoranza, miopia ed incapacità della casta politica, tanto di quella nazionale come di quella europea, o di entrambe.
Il fatto obiettivo ed incontestabile è che una politica di stop alle sovvenzioni al petrolio e di incentivo all’autosufficienza energetica comporterebbe una serie di benefici:
  • non necessiterebbe di incentivi monetari a carico del contribuente, come è stato finora per tutte le energie rinnovabili;
  • sarebbe una potente fonte di gettito fiscale e riattivazione dell’industria locale;
  • avrebbe ricadute positive anche sull’ambiente (riduzione degli odori delle vasche di liquami e della letamaia, migliore qualità agronomica del digestato rispetto al letame) e sul clima globale (riduzione delle emissioni climalteranti, causate dalla decomposizione del letame e dall’utilizzo di fertilizzanti chimici). 
Purtroppo, finché il diritto all’autosufficienza energetica non verrà esplicitamente riconosciuto come un diritto costituzionale e finché lo Stato continuerà a sovvenzionare le fonti più inquinanti come il gasolio e altri derivati dal petrolio, il futuro dei mini-impianti di biometano rimarrà una utopia perché la naturale resistenza al cambio e la farraginosità della burocrazia, continueranno a mantenere lo status quo basato sui combustibili fossili.