A conti fatti, l’epidemia di Xylella fastidiosa che ha colpito gli uliveti pugliesi sembra aver causato meno danni alla produzione di olio che le drastiche – e forse non del tutto scientificamente giustificate - misure adottate dall’Ue per combatterla all’ambiente e agli olivicoltori. Come in ogni situazione di crisi, appaiono invariabilmente quelli che, per innocente disperazione o per volontà di sciacallaggio sulle disgrazie altrui, sostengono di aver trovato la cura miracolosa; i complottisti che negano, o minimizzano il problema - attribuendolo a chissà che oscuri interessi delle multinazionali - e i catastrofisti che, al contrario, proclamano conseguenze apocalittiche.

Come ogni ecosistema, nel quale interagiscono esseri viventi, la biologia dei diversi ceppi di Xylella fastidiosa e dei loro insetti vettori, è un argomento estremamente complesso, sul quale non è stata detta ancora l’ultima parola da parte della ricerca scientifica.

Pragmaticamente, se assumiamo che le semplificazioni solo possono indurre a conclusioni sbagliate, o quanto meno parziali, ci resta solo un’opzione nel contesto normativo attuale: tentare di compensare i danni con qualche piccolo guadagno.
In una società dove, paradossalmente, la legna di un albero ormai vale di più della sua ombra e dei frutti, l’irreparabile danno - economico, ambientale e sociale - che presuppone lo spianto e incenerimento degli ulivi infetti imposto da Bruxelles, potrebbe essere parzialmente compensato con una tecnica quasi tanto antica come l’agricoltura stessa: la produzione artigianale di carbone o, come vedremo in seguito, di legna torrefatta.

Come si produce il carbone
La carbonizzazione delle biomasse è un processo termico chiamato pirolisi, nel quale le complesse molecole che compongono la legna – lignina e cellulosa- sottoposte ad alte temperature in assenza di ossigeno, vengono decomposte in molecole più semplici, lasciando alla fine il carbone come residuo. Il processo ha tre stadi:
  • Disidratazione. La legna da carbonizzare viene collocata in un recipiente ermetico e bruciata con un forte deficit di ossigeno, oppure riscaldata da una fonte di calore esterna. La legna si secca una volta che l’acqua al suo interno raggiunge la temperatura di 100 ºC per effetto del calore somministrato. Questa fase è fortemente endotermica per l’importante quantità di energia richiesta dal processo di evaporazione.
  • Torrefazione. Applicando ulteriore calore , oppure consentendo ancora la combustione di parte della legna con un forte deficit d’aria, la temperatura continua a salire rimanendo nella fase endotermica. Tuttavia, sebbene l’energia necessaria per innalzare la temperatura della legna sia relativamente piccola (perché il suo calore specifico è basso) le dispersioni termiche nei forni artigianali sono notevoli e risulta comunque necessario un ulteriore apporto di energia, anche se in genere minore rispetto a quello richiesto dalla disidratazione.
  • Pirolisi. Alla temperatura di circa 300 ° C, le molecole di lignina e cellulosa iniziano a decomporsi sprigionando gas (H2, CO, CO2 e CH4) e vapori di idrocarburi leggeri (maggiormente metanolo, CH3OH, e acido acetico , C2H4O2). Questa fase è esotermica, cioè le reazioni di decomposizione della biomassa generano calore, il quale determina un ulteriore incremento di temperatura. Nell’intervallo fra i 300 °C e i 400 °C si formano migliaia di idrocarburi, i quali possiamo suddividere grossolanamente in due famiglie: la pece (insolubile in acqua) ed il catrame (chiamato anche acido pirolignoso, o con il nome inglese tar, solubile in acqua). Se il processo di combustione viene interrotto a 400 °C, la quantità di carbone rimanente è massima (circa il 38% della massa secca iniziale) ma si tratta di un carbone di bassa qualità (brucia con molto fumo perché contiene ancora una certa quantità di catrame). Spingendo ulteriormente il processo fino a 450 °C, si ottiene carbone in quantità minore (33 a 35% della massa secca iniziale) ma di migliore qualità –il tipico carbone utilizzato per le grigliate domestiche. Spingendo il processo fino a 500 °C si ottiene carbone purissimo (le uniche impurità che contiene sono solo ceneri, cioè i minerali propri di tutti i tessuti vegetali, quali sali di Na, K , Mg e Ca) ma molto friabile, caratteristica che unita alla minore resa (circa il 30% della massa secca iniziale) rendono indesiderabile protrarre oltre le reazioni. La carbonizzazione a 500°C viene attuata solo a livello industriale, con lo scopo di produrre carbone attivo per l’industria chimica e la potabilizzazione dell’acqua. Nei forni di carbone artigianali, quando si raggiunge una temperatura compresa fra 430 e 450 °C, il passaggio d’aria viene chiuso completamente ed il forno viene lasciato raffreddare completamente prima di aprirlo per lo scarico.
La carbonizzazione delle biomasse legnose si pratica ancora in forni primitivi (figura 1): semplici buche scavate nel terreno riempite ad arte con della legna - in modo da consentire l’uniforme riscaldamento - e poi coperte con corteccia, sabbia e ceneri e fango per evitare che la legna entri in contatto con l’aria , il che porterebbe alla combustione diretta e alla produzione di ceneri anziché carbone. L’entrata controllata dell’aria e la fuoriuscita dei fumi e vapori viene regolata aprendo e chiudendo - con delle pietre - alcune aperture appositamente predisposte. Il processo è ecologicamente disastroso, in quanto i vapori e i gas acidi generati vanno a finire in atmosfera.
 
Più raffinato, e anche meno inquinante, risulta l’impiego di forni realizzati in mattoni (figura 2) o in metallo (figura 3), nei quali i vapori vengono talvolta condensati per ricavare la pece ed il catrame; prodotti ormai in disuso in quanto sono stati sostituiti dai derivati di petrolio e quindi aventi un mercato ridotto. Nei forni detti “a retorta” , i gas e vapori da pirolisi vengono convogliati verso una fiamma esterna, posta alla base del forno, e quindi bruciati. In tale modo, si risparmia una notevole quantità di legna, aumentando resa complessiva e riducendo le emissioni inquinanti in atmosfera.
 
 
Figura 2. Forno argentino detto “mezza arancia” , realizzato in mattoni incollati con fango
Fonte: Burnbricks.blogspot.it
 
Figura 3. Forno africano tipo retorta, realizzato artigianalmente con bidoni di acciaio
Fonte: Biocharfarms.org
 
Legno torrefatto o carbone per mitigare le perdite causate dalla Xylella fastidiosa?
Dura lex, sed lex. A torto o a ragione, essendo obbligati dalle normative vigenti all’espianto e successivamente alla distruzione degli alberi infetti, con il fine di evitare la propagazione della malattia, i processi di torrefazione, o di carbonizzazione, realizzati sul posto garantiscono la completa sterilizzazione della biomassa grazie alle temperature molto elevate raggiunte. Entrambi i processi hanno due vantaggi, rispetto alla combustione a cielo aperto: consentono, al coltivatore colpito, un piccolo recupero delle perdite e la riduzione dell’inquinamento, perché la quantità di fumo prodotta sarà minore, giacché solo verranno bruciate sul posto le foglie e le ramaglie, come verrà spiegato in seguito.
La nostra modesta proposta di mitigazione del problema, così come illustrata, è facilmente attuabile con un piccolissimo investimento: riciclando bidoni d’acciaio (i classici tamburi da 200 l) per costruire forni detti “a retorta”, simili a quelli utilizzati in alcuni paesi africani (figura 3) e dotandoli di semplici termometri bimetallici come quelli utilizzati per i forni domestici, facilmente acquistabili in qualsiasi bazar.

I seguenti numeri forniscono un’indicazione di massima sul potenziale dell’idea proposta.
Compariamo i seguenti due casi ai fini della produttività di biomassa: un ulivo secolare con un diametro di 2,5 m e un ulivo maturo con 1 m diametro. La biomassa fresca del primo s’aggira attorno alle 8 ton, mentre quella del secondo peserebbe circa 1,3 ton. Poiché l’umidità del legno di ulivo è pari a 35%, la massa secca del primo risulta dunque pari a 5925 kg, mentre quella del secondo raggiunge 960 kg . Con lo scopo di riscaldare la massa legnosa nobile, (tronco e rami più grossi, spaccati) fino ad almeno 300 ºC, assumiamo di dover bruciare rami, corteccia e foglie. La massa legnosa nobile è pari a circa il 60% della massa secca totale e, poiché nella torrefazione la perdita di peso è trascurabile, otterremo dunque 2.700 kg di legna torrefatta nel caso dell’ulivo secolare, e 500 kg nel caso dell’ulivo maturo. Il prezzo al dettaglio della legna spaccata in ciocchi di 30 cm o 50 cm di lunghezza (per caminetti e pizzerie, rispettivamente) si trova nel range 1 €/kg a 1,50 €/kg. Considerando che il legno di ulivo torrefatto, una volta tolto dal forno ed esposto all’aria, assorbirà circa il 15 % di umidità, la resa finale di legna sarà di circa 3.100 kg nel primo caso mentre pari a 575 kg nel secondo. Possiamo ipotizzare un prezzo all’ingrosso pari a 0,70 €/kg, perché il legno di ulivo, di per sé molto compatto, dopo essere stato torrefatto diventerà ancora più duro e quindi la sua qualità sarà superiore a quella del tipico legno di faggio o rovere semplicemente stagionato in catasta. Quindi nel primo caso l’olivicoltore recupererà 2.170 € e 402 € nel secondo caso. 

Può valere la pena spingere ancora la temperatura fino ad ottenere del carbone? La resa in carbone (450 °C) è pari al 35% della massa secca, quindi otterremo 2.074 kg netti di carbone dall’ulivo secolare e 337 kg di carbone dall’ulivo maturo. Il prezzo al dettaglio del carbone è pari a 1,5 € / kg , per cui possiamo stimare un prezzo all’ingrosso pari a 0,75 €/kg. Quindi la produzione di carbone da un ulivo secolare frutterà all’olivicoltore almeno 1.555 € , mentre nel caso dell’ ulivo da 1 m di diametro il ricavo sarà pari a 253 €. Conviene decisamente limitare il processo alla più semplice torrefazione degli ulivi espiantati: si avrà un maggiore guadagno con meno lavoro e minori emissioni inquinanti in atmosfera.

Conclusione
Rivolgiamo un appello alle autorità sanitarie preposte alla verifica delle operazioni di espianto e incenerimento degli ulivi colpiti da Xylella fastidiosa, affinché la torrefazione in loco sia ammessa come alternativa valida alla prevenzione della malattia.
I benefici generali ottenibili con questa nostra proposta saranno:
  • efficacia nel contenimento della malattia, in quanto il riscaldamento in forno fra 250 ºC e 300 °C sterilizza perfettamente il legno,
  • consentire agli olivicoltori di recuperare almeno una frazione delle loro perdite,
  • ridurre le emissioni inquinanti in atmosfera, rispetto alla combustione in falò prevista dalla attuale normativa,
  • immettere nel mercato legna di ottima qualità, sollevando in parte la pressione antropica attualmente esercitata sul patrimonio boschivo italiano,
  • promuovere lavoro per l’artigianato, in quanto sarà necessario riciclare vecchi bidoni di acciaio o costruire semplici forni, metallici oppure in sassi o mattoni, per torrefare la legna.