Qualche giorno fa mi è venuto a trovare un vecchio e caro amico francese. Lui commercia patate (la Francia è un grande esportatore di tuberi) e lo avevo perso di vista per anni. Era occupato ad aprire ai suoi prodotti al mercato asiatico: un mercato che si è rivelato eccellente per i transalpini. Poi è successo qualche cosa.

 

Con la crisi del covid, i prezzi internazionali dei trasporti marittimi sono schizzati a valori impensabili e anche i tempi di consegna si sono allungati. Il trasporto di prodotti a minor valore aggiunto (come appunto le patate) è diventato troppo oneroso e quindi i francesi sono tornati a piazze più vicine.

 

La globalizzazione ha portato il settore della produzione di materie prime ad essere estremamente dipendente dalla fragilità del sistema dei trasporti internazionali con enormi fluttuazioni dei costi. Se prendiamo il Baltic Dry Index, che indica l'andamento dei costi di trasporto marittimo per i materiali sfusi e secchi, questo è salito da 500 nei primi mesi del 2020 a 3mila nel 2021.

Lo stesso è avvenuto per i container (con cui si sposta il 60% delle merci globali) che hanno visto i prezzi dei loro noli moltiplicarsi fino all'estate dello scorso anno. Oggi la situazione pare si stia normalizzando e infatti le grandi compagnie di trasporti prevedono una riduzione dei margini di profitto record realizzati negli scorsi due anni.

 

Tutto questo per dire che i nostri mercati sono legati ai costi dei trasporti internazionali.

Per fare un esempio: una maggior pressione commerciale francese sul mercato italiano delle patate potrebbe voler dire prezzi minori per le patate nazionali. Per i prossimi anni si prevede ancora una certa volatilità dei trasporti navali internazionali, perlomeno fino a che non diverranno operative le grandi navi oggi in costruzione (in cui le grandi compagnie hanno investito i loro introiti record di questi anni).

 

I trasporti terresti saranno ancora di gran moda: per quanto riguarda le commodity bisogna allora tener d'occhio l'offerta dei paesi più vicini. A partire dall'Ungheria (per il mais, un prodotto per cui stiamo sviluppando una preoccupante dipendenza dall'estero) fino alla succitata Francia, all'Austria o anche alla Grecia (per il grano tenero e duro).