Due fra le più prestigiose testate giornalistiche mondiali, l'Economist e il Guardian, nelle scorse settimana hanno pubblicato lavori molto documentati sulla possibilità di una crisi alimentare di portata mondiale. Il pronostico delle due testate - peraltro schierate su due versanti politici ben differenti - ha avuto un formidabile eco internazionale.

 

Il paragone è quello con la crisi finanziaria del 2008. Ricordiamo che la grande recessione mondiale verificatasi fra il 2007 e il 2013 fu innescata dalla crisi americana dei subprime e del mercato immobiliare, il contagio finanziario diffuse poi una spirale recessiva di portata globale (con l'eccezione paesi quali l'India e la Cina).

 

Oggi la guerra in Ucraina potrebbe essere l'innesco a una crisi che trova però ragioni ben più antiche e profonde. Certo Russia e Ucraina forniscono il 12% del totale delle calorie commerciate nel mondo e la guerra ha da subito generato un rialzo delle quotazioni del grano del 53%, con un rincaro di un ulteriore 6% da quando l'India lo scorso 16 maggio ha deciso di cessare le proprie esportazioni di cereali. Il rincaro dei generi alimentari è oggi il principale vettore di inflazione in tutti i paesi occidentali.

 

Nei paesi poveri, tuttavia, la situazione è ben più preoccupante. Il numero delle persone sottonutrite nel mondo dal 2005 al 2014 era calato, arrivando a 607 milioni di persone. Dal 2015 il trend si è nuovamente invertito e si è arrivati a oltrepassare gli 800 milioni nel 2020. Per quest'anno molte fonti purtroppo prevedono cifre anche molto superiori a 1 miliardo.

 

Curioso osservare come la ripartenza della fame abbia coinciso con i minori prezzi delle commodity agricole: il Global Food Price Index nel 2015 è sceso a 93 ed è rimasto sotto 100 fino all'anno scorso. Sostengono molti analisti di gran fama che le ragioni di un'eventuale crisi mondiale risiedono nella sostanziale fragilità del sistema mondiale del cibo: qui la analogia con la crisi finanziaria del 2008, generata da un sistema bancario gigantesco, ma con i piedi di argilla.

 

Il 90% il commercio del grano mondiale è nelle mani di 4 grandi gruppi multinazionali ed è sempre più complesso: i contratti commerciali globali per il grano sono praticamente raddoppiati negli ultimi 20 anni polarizzandosi verso super importatori. Molte nazioni oggi giocano un risiko per accaparrarsi parte delle riserve mondiali - un risiko che vede però i paesi perdenti manifestare una drammatica debolezza. Una debolezza resa ancor più evidente dalle abitudini di consumo sempre più occidentalizzate.

 

Oggi il 60% delle calorie consumate sul pianeta terra (la Global Standard Diet) è rappresentato da grano, riso, mais e soia - colture prodotte in gran misura solo da pochi paesi. Paesi che per commerciare si muovono da pochi grandi porti (lo abbiamo visto con i porti ucraini in questi giorni) e passano da pochissimi punti nodali (stretti di Suez, Malacca, Bab El Mandeb, Hormuz…). Un sistema fragile, un sistema pericoloso.