Classe 1934, ma con la grinta di una ventenne alla conquista del mondo: al secolo, Luigina Sbaraini. Un'energica signora da 87 primavere con le ultime candeline spente il 21 febbraio 2021. Ultima rimasta di otto fratelli, lei era la penultima, oggi vive in Piemonte nei dintorni di Biella, ma le origini sono cremonesi tra Olmeneta e Corte de' Cortesi, paesini di poche anime prossimi al confine con la provincia di Brescia. In piena era Covid-19 ha scoperto, grazie alla figlia e alla nipote, che esiste Skype e che un giornalista che potrebbe essere suo figlio è interessato ad ascoltarla. Si collega al web e tempo due minuti supera ogni impaccio e pare una teenager alla prima chattata con gli amici.

Racconta che andò in monda per la prima volta nel 1950 in sostituzione della madre che si era presa il tifo. Perché a quell'epoca beccarsi una malattia infettiva era molto più facile che oggi, anche senza attendere che arrivasse dall'altra parte del pianeta. Dopo quell'esordio, tutt'altro che indolore, nelle risaie ci fece altre due stagioni. Ogni volta per un paio di mesi, perché forse molti non sanno che le mondine mica si limitavano a levare le malerbe a mano dalle risaie: il riso lo trapiantavano pure. All'epoca il trapianto era infatti una pratica molto diffusa, dato che la meccanizzazione agricola non era ancora riuscita a superare la convenienza di sfruttare manodopera a basso costo.

E così, Luigina iniziò a fare la mondina per coprire un buco apertosi nel bilancio familiare, divenendo a 19 anni una preziosa risorsa economica per tutti. Poi, dal 1953 l'intera famiglia si spostò in Piemonte alla ricerca di nuove opportunità, affittando terreni da coltivare. Un inserimento non certo facile, visto che all'epoca i dialetti erano la base di comunicazione: loro parlavano solo cremonese stretto, lassù parlavano invece piemontese, altrettanto stretto. O, per lo meno, parlavano il piemontese in uso da quelle parti. Si capivano soprattutto a senso e a gesti, ricorda sorridendo, poi piano piano l'italiano prese il sopravvento e tutto divenne più facile.

Luigina è un fiume in piena e la memoria fluisce con la stessa irruenza con cui l'acqua passa dai canali alle risaie: la "capa mondina" – ricorda Luigina – le prenotava per tempo e al momento della chiamata loro partivano. Dal cremonese erano in 10-12 donne su circa 60 totali, di cui molte giovani ragazze. Praticamente, erano qualcosa di simile agli attuali braccianti extra-comunitari, caporalato incluso: i bagagli venivano caricati su un camion, mentre loro prendevano il treno. Giunte a Milano cambiavano convoglio e via, verso Vigevano. Tanto mica ci mettevano di più del camion, viste le strade e i mezzi dell'Italia del dopoguerra, quando per coprire poche decine di chilometri ci si metteva ore. La loro non era peraltro una posizione facile, tanto che se le "guardie" le fermavano in stazione e chiedevano loro chi fossero e dove andassero, rispondevano che erano gitanti e svicolavano.
 

Luigina Sbaraini, seduta con il cappello bianco, in una foto ricordo dei primi anni '50
Luigina Sbaraini, seduta con il cappello bianco, in una foto ricordo dei primi anni '50 (Foto: Luigina Sbaraini)

Giunte a Vigevano, cittadina nel cuore della risicoltura pavese dell'epoca, dovevano correre di volata, perché la cascina era lontana dalla stazione, in "città", e bisognava spicciarsi al fine di accaparrarsi i posti migliori. E già sul termine "migliori" si potrebbe aprire un lungo dibattito: mica alloggiavano infatti in un albergo, né in qualche stanza di una dignitosa cascina. Ad attenderle vi erano solo i magazzini del riso, in quel momento vuoti. Qualche rete spoglia, a chi andava bene. Ad altre toccavano quattro assi su cui buttare della paglia. Ecco perché Luigina, giovane ma sveglia, si portava una fodera da imbottire con quel che trovava. Spesso solo paglia, appunto. Un materasso sui generis che alla fine dei due mesi di lavoro era tanto schiacciato da non servire praticamente più a niente.

Tanta polvere in quei magazzini, per giunta, senza nemmeno servizi igienici. Per fare i propri bisogni c'erano i campi, per lavarsi i fossi pieni d'acqua. Sveglia all'alba, perché la giornata iniziava alle sei, con un po' di latte per colazione e un pezzo di pane da farsi durare come calorie per almeno un paio d'ore. Sempre che ne avanzassero, di calorie, perché ne toccava solo mezzo chilo a testa. Dura che bastasse a ragazze di neanche vent'anni che dovevano lavorare fisicamente per tutte una giornata. Poi, dopo la ricarica di carboidrati, via al freddo e alle zanzare. Per lo meno, quelle a cui erano sfuggite la notte nei magazzini.

Alle otto, dopo un paio di ore di lavoro, pausa di mezz'ora. Per intuire l'orario mettevano le dita contro il sole, avendo imparato dalle più anziane a capire in quel modo che ora fosse, più o meno, ovviamente. In tale breve occasione di riposo, accompagnata da temperature un po' più miti, veniva distribuita una piccola pagnotta a testa e poco più. Prendevano il pentolino e mangiavano sedute per terra, sull'erba, poi si andavano a lavare il pentolino: un'amica pompava l'acqua, l'altra lavava. Insomma, lavava. Più che altro sciacquava.


Mondine al lavoro
Mondine al lavoro. Luigina Sbaraini è la prima da sinistra, con il viso purtroppo coperto dalla lacerazione della fotografia. Facile intuire chi fosse la "capa mondina" 
(Fonte foto: Luigina Sbaraini)

Non si poteva però restare a becco asciutto, quindi serviva anche l'acqua. Per andarla a prendere Luigina inforcava una bicicletta, si metteva a tracolla un bariletto di legno e poi faceva la spola tra fontana e campi.
"Maledetto il giorno in cui ho deciso di fare la mondina!", si ripeteva ogni giorno. Questo al primo anno. Poi, ci si abitua a tutto. O quasi. Il lavoro era infatti molto duro: mica facile camminare lentamente, sempre piegati in avanti, con le gambe e gli avambracci nell'acqua. Nel primo mese per trapiantare il riso, il secondo per ripulirlo dalle erbacce. Quindi cambiava anche il senso di marcia: per il trapianto si camminava all'indietro, per la monda si camminava in avanti. Il padrone e la capa mondina le marcavano strette: se non piantavano bene il riso le fermavano dicendo "La barca non va…". E toccava tornare indietro a rifinire il lavoro.

Per pranzo tornavano al magazzino, ove veniva somministrato loro riso e fagioli. Piatto povero, ma calorico. Un attimo distese sui pagliericci a tirar dritte le vertebre e poi via di nuovo nelle risaie: anche nove ore al giorno, piegate con la schiena parallela al terreno. Quando smettevano, cercavano di raddrizzarsi l'un l'altra usando delle corde. Del resto, i corsi di Pilates non esistevano ancora. Per sollevarsi il morale però cantavano, molto, scoprendo che il canto migliorava la respirazione analogamente a quanto avevano scoperto gli schiavi afroamericani nei campi di cotone dell'Alabama. Almeno, le mondine le pagavano. Poco, visto il lavoro infame, ma le pagavano: l'ultimo anno – ricorda Luigina – lavorò per 60 giorni per mille lire al giorno cui veniva aggiunto un chilo di riso. Uno stipendio che se calcolato su base mensile non era poi distante da quelli di alcune giovani impiegate d'ufficio, le quali potevano arrivare a 25-26mila lire.

La domenica, però, al posto di "riso e fasòi" c'era la pastasciutta, magari con un pezzettino di carne e un quartino di vino. Cambiavano anche gli orari, poiché giorni di festa. E per "festeggiare", la giornata iniziava infatti al buio, alle cinque, in modo da terminare alle nove per avere il tempo di andare anche a messa. Una ritualità che allora nessuno si poteva sognare di bigiare. Andare in chiesa implicava però un minimo di igiene personale. Quindi, Luigina e colleghe si lavavano nei fossi, stendendo poi i panni ad asciugare sull'erba. Gli acchiappacolore e gli ammorbidenti profumati erano ancora molto in là da venire. Come le lavatrici, del resto. Dopo la messa e dopo il pranzo, nel pomeriggio della domenica si potevano finalmente riposare. Era il momento in cui scrivevano lettere a casa. Di carta, ovviamente, sperando che arrivassero e che qualcuno, magari, rispondesse pure.

Luigina, come detto, era sveglia. Aveva compreso che mettersi al servizio della squadra aveva i suoi vantaggi, poiché consentiva di staccare per un attimo dalla messa in piega vertebrale generata da quel lavoro usurante, contrario alle leggi dell'anatomia umana. Andava e veniva, la minuta Luigina, anche perché giovane e veloce. Ora per portare l'acqua, ora per distribuire il pane. Così, per qualche minuto poteva stare senza le gambe a mollo, avvolta dalle zanzare. Perché fra le tante cose che allora non c'erano si può serenamente aggiungere l'Autan.

Il bariletto per l'acqua: pesante, con una tracolla dura. Però serviva come diversivo per sottrarsi qualche minuto al lavoro a schiena curva nelle risaie
Il bariletto per l'acqua: pesante, con una tracolla dura. Però serviva come diversivo per sottrarsi qualche minuto al lavoro a schiena curva nelle risaie
(Fonte foto: Luigina Sbaraini)

Quando poi il riso veniva trapiantato dopo frumento, le stoppie della coltura precedente tagliavano mani e piedi. Anche perché era impossibile muoversi in quella fanghiglia indossando stivali o altre calzature: ci rimanevano dentro e non riuscivi più a recuperare il piede. E poi bisce e sanguisughe. Altro che calze. E così i piedi, sempre nudi e sempre a mollo, si gonfiavano e si rovinavano, fino a produrre eritemi e perfino piaghe. Per disinfettarsi e trovare un minimo sollievo, a sera vi versavano sopra un po' di minestra calda. Per lo meno, la parte più brodosa della pentola, perché la parte più sostanziosa era meglio mangiarsela. E infatti alla sera c'era la corsa, perché alle prime toccava più sostanza, alle ultime veniva dato il fondo della pentola, cioè poco più che acqua sporca.

Un anno venne perfino la malaria: Luigina se la scampò, quindi distribuiva le pastiglie di chinino alle altre compagne meno fortunate. Il destino non la graziò però negli anni a venire, visto che nel 1957 si beccò l'asiatica, una pandemia che mandò all'altro mondo un milione e 100mila persone a livello globale. All'ospedale non sapevano cosa fosse, ricorda Luigina. Cercavano la tubercolosi, ma non era quella. Patì febbre alta per molti giorni, ma grazie ai suoi 23 anni – e a una tempra da legno di Robinia – si riprese in fretta. Da quando è arrivato il vaccino per l'influenza, sorride, lo faccio sempre. E ora è il turno del Covid-19. I no-vax, contro Luigina, se ne devono fare una ragione. 

Difficile però fare paura a una donna che ha visto una guerra, la tubercolosi, la malaria e perfino una pandemia virale. Una donna che nonostante gli oltre 70 anni di vita piemontese sogna ancora il suo paese, in provincia di Cremona. "Andrei ancora nella mia vecchia casa a occhi chiusi", afferma orgogliosa. Solo che non ci troverebbe più nessuno. Di otto, tra fratelli e sorelle, è rimasta solo lei avendo seppellito pure cognate e cognati.

Chissà a cosa pensa, Luigina, mentre cura il proprio orto e le poche galline di cui ancora si occupa. "Non riesco a stare ferma!", dice alla fine. E forse è proprio questo che la tiene in vita e in salute, anche oggi che le lavatrici e gli acchiappacolore sono nelle case di tutti. Dubitando peraltro che fra quei "tutti" vi sia ancora qualcuno che sarebbe capace oggi di sopportare metà della vita che ha portato sulle spalle Luigina.

Peccato quindi che i suoi ricordi rischino di andare perduti, nel tempo, come lacrime nella risaia. Perché, secondo la massima attribuita a Sheikh Rashid, fondatore di Dubai, "I tempi difficili generano uomini forti. Gli uomini forti generano tempi facili. I tempi facili generano uomini deboli. E gli uomini deboli generano tempi difficili". Un loop alquanto perverso che si potrebbe forse spezzare se la memoria di persone come Luigina venisse custodita e tramandata, anziché diluirsi nel tempo fino a scomparire, sommersa da comodità e benessere di cui in molti non riescono nemmeno a comprendere l'origine.