Come certi anziani (a Bologna li chiamiamo "umarells") corro il rischio di raccontare gli aneddoti in maniera ricorrente. Mi perdonerete, nel caso: repetita iuvant.

Qualche anno fa in giro per lo stato del Victoria in Australia mi capitò di andare a visitare un'azienda agricola. Un unico conduttore e proprietario di almeno 500 ettari in pianura e un capannone pieno di attrezzature neanche fosse uno stand dell’Eima. Si sarebbe detto un gran signore ma era coperto di debiti con le banche e non possedeva i 6 bicchieri per offrirci da bere; si brindò allora alla sua salute con lattine di ottima birra australiana.
In Australia non vi sono provvidenze governative ed è il mercato a farla da padrone. Come noto, la coltivazione di commodity prevede forti investimenti ed è supremamente soggetta alla volatilità dei prezzi.

Di questo han paura, per esempio, i milioni di coltivatori che adesso stanno scendendo in piazza in India contro la riforma agraria liberista del loro presidente Narendra Modi. O ancora gli agricoltori del Midwest americano che han votato in massa Trump dato che questo aveva permesso alle imprese agricole di passare indenni dalle bizzarrie di mercato nel 2020; i pagamenti diretti Usa agli agricoltori, lo scorso anno, sono cresciuti del 107% rispetto al 2019.

Poi c’è chi pensa che piccolo è bello.
Parliamo di quei tanti produttori agricoli che hanno creato un filo diretto con il consumatore. Qui non si parla più di rese a ettaro, si parla - per citare una volta di più il mio amico agricoltore digitale Giuseppe Savino – di relazioni per ettaro. Giuseppe stanco di dipendere da un mediatore per la sua coltivazione di melagrane nel Tavoliere di Puglia ha deciso di passare alla vendita diretta con un'originale forma di marketing e comunicazione: propone ai consumatori la bellezza dei suoi campi.
Adesso sta piantando tulipani. Ha moltiplicato gli introiti. E anche le relazioni.