Fra le soluzioni atte a conferire maggiore biodiversità ai campi coltivati sta destando crescente interesse la tecnica colturale cosiddetta “a strisce”. Tale metodo di produzione prevede in campo l’alternanza spaziale anziché temporale di più colture, da seminarsi una al fianco dell’altra con sequenze ripetibili in un numero di volte coerente all’ampiezza dell’appezzamento.

A descrivere tale approccio hanno pensato alcuni ricercatori(1) che hanno pubblicato uno studio in tal senso sulla rivista Agriculture, Ecosystems & Environment. La ricerca, sviluppata su base quadriennale, ovvero fra il 2007 e il 2010, è stata ospitata da un'azienda agricola biologica canadese. I campi sono stati suddivisi in strisce da 24 o da 48 file per le diverse colture e si è cercato di valutare i benefici derivanti dall’aumentata eterogeneità varietale in campo.

In effetti, a parità di produzioni rispetto alla conduzione per blocchi omogenei, nei campi “a strisce” si è pur mostrato qualche vantaggio. Per esempio su soia si sarebbe osservata una riduzione degli afidi compresa da un minimo del 33% a un massimo del 55%.

Come larghezza minima delle strisce, adottando tale tecnica sarebbe bene prevedere quella che poi dovrà permettere il passaggio di una mietitrebbia. Quindi, la larghezza dell’aspo o della testata da mais sarà il modulo metrico da seguire. Questo ovviamente se si opera in biologico, come appunto l'azienda oggetto della ricerca, senza cioè la necessità di applicare alcunché con delle macchine irroratrici. La musica cambia in convenzionale e integrato.
 

Valori e limiti

Sebbene sia certamente in linea con gli obiettivi di una maggiore diversificazione delle specie vegetali per unità di superficie, quanto sperimentato in Canada ha per contro alcuni limiti intrinseci. Può cioè essere applicato con profitto solo in alcune ben specifiche realtà aziendali.

Tale approccio, infatti, risulta ovviamente più laborioso di quello tradizionale a monoblocchi, richiedendo un maggiore livello di complessità per molte delle pratiche di campo, a partire dalle lavorazioni del terreno. Inoltre, si presta solo in caso le superfici in gioco siano molto estese, come quelle tipiche del continente nordamericano e di altri Paesi dalla Sau media importante. Meglio infatti se i singoli campi avanzano svariati ettari di superficie.

In Canada, area in cui è stato sviluppato l’esperimento, la superficie media delle aziende è di circa 320 ettari (820 acri). Quella italiana è di 11 ettari (dati Crea), con circa 23 in Lombardia, Regione con la superficie media più alta fra quelle caratterizzate da agricoltura intensiva, superata solo da Valle d’Aosta e Sardegna per ovvi motivi di pascoli.

Difficilmente tale pratica si può quindi adattare con profitto in realtà aziendali i cui singoli appezzamenti, per giunta frammentati, siano nell’ordine delle frazioni di ettaro o comunque di un ettaro o poco più, come quelle che rappresentano la maggior parte delle aziende italiane. Ovviamente “difficile” non vuol dire “impossibile”, a patto di essere consapevoli della complessità e della fatica cui si va incontro sposando la coltivazione “a strisce” in aziende di piccole dimensioni.

Inoltre, se tale pratica offre indiscutibili vantaggi in appezzamenti di centinaia di ettari coltivati a bio, essa ha molto meno senso in realtà dai campi molto piccoli che già di per sé possono essere considerati alla stregua di “strisce”. Meglio in tal caso seguire un razionale piano di rotazioni che inseguire pratiche i cui costi promettono di essere molto maggiori dei benefici. Certamente, anche alcune aree italiane potrebbero beneficiare di tale tecnica, ovvero quelle caratterizzate dalle aziende aventi le maggiori estensioni, sebbene vi siano ulteriori perplessità da sviscerare.

Per esempio, coltivare frumento, mais e soia in strisce parallele pone diversi problemi logistici, a partire dai tempi diversi e dalle modalità differenti di lavorazione del terreno. Ogni coltura richiede infatti lavorazioni specifiche per tempi e modalità: l’aratura, volendo, può essere anche effettuata tutta insieme a fine estate, prima della semina del frumento, ma l’affinamento del terreno resta comunque diverso per tempi e modi nelle tre colture: per il frumento andranno effettuate subito le lavorazioni accessorie post-aratura, altrimenti non si può seminare in ottobre-novembre, mentre per mais e soia conviene attendere la primavera, lasciando lavorare le zolle dagli atmosferili anziché dagli erpici, anche al fine di minimizzare l’erosione superficiale dovuta all’affinamento troppo precoce di un terreno che resterà giocoforza nudo fino alla primavera.

E non si pensi sia facile operare con dei coltivatori, seguiti da erpici a denti, manovrando su strisce di terreno nudo in mezzo ad altre con la coltura già in atto, sebbene i moderni sistemi satellitari possano dare una grossa mano in tal senso. Il tutto, pensando che anche l’aratura pre-mais e pre-soia sarebbe meglio effettuarla prima della semina, a fine inverno, anziché in autunno. Sempre per i summenzionati pericoli di erosione. 

Tale problema non si pone invece in Canada, ove anche il frumento si semina a fine inverno e ha ciclo primaverile estivo al pari di mais e soia. Meglio andrebbe quindi, in Italia, scegliendo colture tutte caratterizzate dal medesimo ciclo (es. mais, soia e girasole), ma in tal modo si limiterebbero parzialmente le potenzialità della tecnica stessa che tanto più viene valorizzata quanto più sono botanicamente diverse le colture in gioco.

Ogni questione sulle lavorazioni si potrebbe magari risolvere con la semina su sodo: un’unica pratica, applicabile a diverse colture. Pratica che però non è eseguibile in assenza di trattamenti fitosanitari specifici, come per esempio quello in pre-semina con l’oltremodo discusso glifosate. Un problema, quello dei trattamenti, tutt’altro che secondario. 

Se tali questioni non se le deve porre un’azienda biologica come quella canadese citata, queste diventano i più severi fattori limitanti per un’azienda che segua criteri di agricoltura integrata. In tal caso, oltre a dover impostare le strisce in funzione della larghezza della barra dell’irroratore, badando di realizzare multipli precisi delle testate della mietitrebbia, si dovrebbero anche applicare agrofarmaci specifici coltura per coltura, correndo diversi rischi a causa della deriva e dello sfasamento temporale dei trattamenti.

Mentre il grano è infatti già presente in campo, a marzo, è pure il momento di effettuare i diserbi di pre-emergenza per il mais, utilizzando erbicidi che magari al frumento bene non fanno. Per quanto si adottino tutte le misure di contenimento della deriva, è impossibile che qualche effetto negativo non si osservi nei primissimi metri adiacenti, anche fosse uno solo. Si potrebbe mitigare tale fenomeno tenendo strisce di rispetto, vuote, ma queste dovrebbero essere molto numerose in un campo già di per sé coltivato a strisce. La perdita di terreno coltivabile sarebbe cioè disastrosa.

Poi, anche la soia andrebbe seminata poco dopo il mais, patendo magari dell’effetto residuale dei medesimi erbicidi di pre-emergenza usati proprio su mais qualche settimana prima e caduti nel fatidico metro a lato. Poi ci sono i post-emergenza: se quelli del frumento possono anche influire poco su mais e soia, specie se effettuati precocemente, quelli di post-emergenza di mais e soia possono invece interferire sia fra loro sia con il frumento stesso, ormai in fase di fioritura o addirittura di maturazione. Un problema che comunque persisterebbe anche seminando colture a ciclo simile, primaverile-estivo.

Ma non è solo la fitotossicità a preoccupare: permane infatti il rischio di avere contaminazioni fuori etichetta, visto che gli agrofarmaci contemplano autorizzazioni specifiche che rendono ancor più complessa la scelta dei prodotti. E se qualcosa va male, poi all’analisi residui sono guai.

Non che l’aspersione di fertilizzanti granulari di sintesi sia poi facile, sempre a causa dell’estrema ristrettezza dei fonti operativi di cui si parla.

Altro problema, l’acqua. Difficile che il mais sia coltivato come irriguo in Canada, grazie al clima più fresco e a piogge che risultano abbondanti soprattutto nei mesi primaverili-estivi. Molto diverso quindi dallo scenario italiano, sebbene il Nord Italia abbia una piovosità assoluta simile a quella canadese. Per esempio, si hanno valori di circa mille millimetri medi in Lombardia, contro valori che arrivano anch’essi a sfiorare i mille millimetri l'anno in Canada. Il problema è che l’andamento delle piogge è inverso, avendosi nel Nord Italia precipitazioni molto rarefatte a fine primavera e a inizio estate, proprio quando mais e soia hanno il maggior fabbisogno idrico. Se quindi in Italia si possono e si devono effettuare irrigazioni estive, in Canada no. E appare alquanto complesso predisporre sistemi irrigui tali da differenziare l’apporto di acqua in funzione di strisce di pochi metri di larghezza.
 

Conclusioni

La ricerca svolta in Canada apre sicuramente la strada a evoluzioni nell’approccio colturale. Da sottolineare però che il riferimento alle rese, rivelatesi uguali nella prova rispetto alla conduzione tradizionale a monoblocchi, è comprensibile per il biologico, ma non per l’integrato. Un’azienda bio, infatti, rinuncia già a prescindere ad agrofarmaci e fertilizzanti di sintesi. Non patisce cioè di tutti i problemi sopra esposti che affliggerebbero invece le aziende non biologiche. Le rese del bio, però, sono notoriamente più basse altrettanto a prescindere, quindi coltivare a monoblocchi o a strisce incide poco sui quintali per ettaro raccolti: producevano meno prima, continuano a produrre meno dopo. Anzi, il contenimento di alcuni parassiti, dovuti proprio all’alternanza di colture, potrebbe influire positivamente perfino sulle rese, migliorandole.

Resta valido quindi il fatto che a confronto con un’azienda di pari dimensioni, ma integrata, l’azienda bio citata nello studio produca giocoforza meno, indipendentemente dall’approccio considerato. E di rese si parla sempre troppo poco in questi ultimi anni, quasi fossero un peccato di cui vergognarsi.

Difficilmente tale esperienza potrà quindi essere esportata nell’agricoltura integata italiana, se non a prezzo di inasprimenti gestionali ed economici a tutto svantaggio delle rese e dei costi finali. Meglio quindi non assumere toni entusiastici su ricerche come quella citata, dal momento che i limiti di tali tecniche sono oggettivamente notevoli, tanto da annichilire persino i vantaggi ambientali.

Poi, se un giorno si dovesse decidere di abbandonare del tutto l’agricoltura moderna e produttiva, l’ambiente ne sarà sicuramente felice. I 750 milioni di popolazione europea, magari, un po’ meno.
1) Labrie, G., Estevez, B., & Lucas, E. (2016): "Impact of large strip cropping system (24 and 48 rows) on soybean aphid during four years in organic soybean". Agriculture, Ecosystems & Environment, 222, 249-257.