Cinghiali e nutrie, ma anche lupi, camosci e stambecchi sono diventati per molti agricoltori un vero e proprio flagello. I danni che la fauna selvatica apporta alle colture sono ingenti e la fase di lockdown, causata dall'epidemia di coronavirus, ha dato ancora maggiore impulso all'espansione di queste specie che hanno potuto vivere indisturbate anche nei pressi delle città per oltre due mesi.

A lanciare l'allarme cinghiali è stata, ultima in ordine di tempo, la Lombardia, dove nel 2019 ci sono stati almeno 128 incidenti stradali causati da questo ungulato che ha cagionato alle aziende quasi 550mila euro di danni, indennizzati dalla regione.

"Nella stagione venatoria 2019-2020 in Lombardia sono stati abbattuti 9.200 cinghiali, ben 1.827 in più rispetto alla stagione precedente. Questi sono i numeri che dimostrano come la caccia di selezione sia efficace se sostenuta da norme avanzate e adeguate ai tempi", ha ricordato l'assessore all'Agricoltura della regione Fabio Rolfi. "I cinghiali stanno mettendo in pericolo l'agricoltura e anche la sicurezza dei cittadini, basti pensare agli incidenti mortali che abbiamo registrato".
 

La sentenza del Tribunale di Taranto

Ma a cambiare le carte in tavola, in favore degli agricoltori, potrebbe essere una sentenza del Tribunale di Taranto, che non solo ha ribadito l'obbligo per regioni e province di ristorare l'agricoltore che ha subito danni da fauna selvatica. Ma ha anche decretato un passaggio da una ottica di indennizzo ad una di risarcimento.

Il giudice monocratico Italo Federici ha infatti dato ragione ad una azienda di Castellaneta (difesa dall'avvocato Giuseppe Clemente) che aveva subito danni ingenti ad un uliveto e ad un agrumeto da parte di cinghiali. Il giudice ha condannato la Regione Puglia e la Provincia di Taranto a risarcire con una somma di circa 40mila euro (più interessi e spese) l'azienda agricola.

Nella sentenza il giudice ha sottolineato come sia compito delle regioni vigilare e controllare la fauna selvatica, patrimonio indisponibile dello Stato, e che questo obbligo era stato demandato in Puglia alle province. Le province pugliesi erano tenute alla predisposizione di piani faunistici venatori, attraverso i quali perseguire obiettivi di individuazione e stabilizzazione della densità faunistica ottimale per territorio.

Il giudice ha constatato come gli enti territoriali non avessero messo in campo nessuna strategia di contenimento né alcuna iniziativa amministrativa in materia, nonostante il relativo onere. Inoltre il giudice ricorda come "non appare possibile anche solo ipotizzare un concorso di colpa della società, dalla quale non si potrebbe di certo pretendere la recinzione di tutti gli estesi terreni condotti in affitto".
 

Il passaggio da indennizzo a risarcimento

"Fino a questa sentenza i danni provocati dalla fauna selvatica alle aziende agricole venivano ricondotti al concetto di rischio di impresa", spiega ad AgroNotizie l'avvocato dell'azienda agricola, Giuseppe Clemente. "Come tale, i danni al massimo sono indennizzabili. L'indennizzo è infatti una somma che non sostituisce il danno, ma lo allevia nei limiti delle disponibilità finanziarie di chi lo eroga".

In altre parole se il danno è 100 ma la regione ha disponibilità finanziarie limitate, versa all'azienda solo una somma ridotta, magari il 5%. Questo perché la regione non è responsabile diretta del danno. L'indennizzo diventa quindi quasi un aiuto benevolo all'imprenditore agricolo, a cui viene riconosciuto un ruolo sociale ed economico, nonché di tutela del territorio.

"Nel risarcimento invece la somma di denaro viene calcolata sull'intero danno arrecato. Il danno non rientra più nel concetto di rischio di impresa, poiché è causato dalla negligenza della regione, che omettendo qualsivoglia cautela lo ha determinato nella sostanza". Il risarcimento quindi deve ristorare integralmente il danno subito.

Nel riconoscere la responsabilità solidale di regione e provincia nel risarcire il danno causato dalla fauna selvatica (e quindi anche da lupi, ungulati o nutrie), il giudice Federici apre la strada ad altri ricorsi, in altre regioni, da parte delle aziende agricole che hanno subito danni.

"Il principio giurisprudenziale introdotto da questa sentenza, e cioè che il danno da fauna selvatica non è riconducibile al rischio di impresa, può certamente essere esteso a livello nazionale", sottolinea Clemente.