Andrea Sisti, agronomo e presidente del Conaf, il consiglio nazionale degli ordini dei dottori agronomi e forestali, ha chiuso sabato 8 luglio il XVI Congresso nazionale dei dottori agronomi e forestali a Perugia.

Un congresso che, come afferma lo stesso Sisti, si è concluso nel migliore dei modi, con oltre 600 iscritti e più di 350 professionisti che hanno partecipato attivamente a tutte quattro le giornate di lavori scandite da dibattiti e seminari sul tema centrale del convegno, cioè la valorizzazione delle aree interne e la ricostruzione sostenibile.

Tematiche che, anche per la sede stessa del congresso Perugia, il cuore dell'Umbria, hanno messo l'accento sul paesaggio, il territorio, l'ambiente e la sostenibilità e ovviamente la ricostruzione, con una visita e una cena di beneficenza organizzata a Norcia e una giornata di studio a Castelluccio, il giorno stesso della riapertura ufficiale della strada che Norcia porta al paese.

Da professionista e anche da umbro, come sta andando la ricostruzione?
"Siamo ancora alla fase emergenziale, nel senso che per il comparto agricolo e zootecnico gli interventi sono stati fatti, c'è stata la mesa in sicurezza e la sistemazione delle stalle e delle strutture provvisorie. Riapre la strada per Castelluccio, ma molte altre strade rimangono chiuse, manca quindi gran parte del sistema delle infrastrutture stradali. Il problema della messa in sicurezza delle strade non è solo il problema delle strade in se stesse, ma di tutto il territorio a cui quelle strade sottendono. Per quanto riguarda le case, le casette sono arrivate a buon punto, ma per la maggior parte dei territori colpiti, siamo in ritardo.
Stiamo vivendo anche una estate abbastanza calda, anche se fortunatamente quei territori hanno una altitudine tale da mitigare un po' le temperature, soprattutto nel periodo notturno, ma non si può pensare di arrivare a ottobre senza aver sistemato tutto. E perché chi è stato sistemato in altre sistemazioni alberghiere, se lasciamo passare troppo tempo, poi probabilmente non rientra, con il rischio di un abbandono del territorio".


La figura dell'agronomo e del dottore forestale: come ha contribuito alla fase dell'emergenza e ora alla fase della ricostruzione?
"Ha contribuito molto. Noi abbiamo avuto in Umbria, nel precedente terremoto, quello del 1997, l'esperienza di abbinare la ricostruzione alla ripresa economica.
Il rischio infatti era ed è tutt'oggi quello di ricostruire case vuote, in cui la gente non rientra o non può rientrare perché manca un tessuto sociale e economico del territorio. E ci sono parti del nostro territorio, sia della regione Umbria che della regione Marche, che purtroppo hanno subito questo effetto. Fondamentale riattivare quella sensibilità e quelle attività come le attività agrituristiche o le attività di trasformazione dei prodotti agricoli, che stiano alla base di un modello diverso di agricoltura, non incentrata esclusivamente sulla produttività, per incentivare e potenziare l'economia di questi territori, che altrimenti vanno incontro a uno spopolamento, anzi conoscevano già questo esodo da queste zone interne e montane, un fenomeno che c'è sempre stato, anche indipendentemente dal terremoto. E in molte delle zone colpite c'erano attività, agrituristiche e produttive, che ora sono danneggiate.
Molti agricoltori hanno investito in questi anni, anche accendendo mutui, e ora si chiedono quando torneranno i turisti, quando potranno riprendere la produzione e la vendita, quando rinizieranno a riprendere l'investimento.
Allo stesso tempo c'è il vantaggio competitivo delle zone non colpite e lo svantaggio di essere in una situazione diversa da altri territori. Qui siamo in montagna, l'economia e la filiera è prettamente una economia e una filiera corta, non è possibile delocalizzare, a volte nemmeno momentaneamente.
Ora quindi la sfida è anche di cambiare questo modello produttivo, potenziandolo, anche con infrastrutture digitali in grado di creare nuove piattaforme e nuove opportunità per le attività di questi territori, per poter ad esempio esportare di più i prodotti o attirare nuovi turisti e clienti. Una riprogettazione che veda la messa in sicurezza delle strutture ma anche la messa in sicurezza e il potenziamento del sistema economico e questo è quello che come agronomi cerchiamo di fare insieme alle istituzioni".


A volte o forse spesso la figura dell'agronomo – e lo dico da collega – è poco conosciuta al grande pubblico. Come si può rilanciare e far conoscere questa figura, anche nell'immaginario della gente, far conoscere chi è l'agronomo, quali sono le sue competenze, quando è che lo posso o lo devo chiamare?
"Noi siamo una professione antica ma siamo anche una professione giovane. Io quando ho iniziato a lavorare 25 anni fa mi chiamavano in tutti i modi, eravamo pochi. Mi chiamavano perito quando andava bene, poi siccome ho iniziato da subito ad occuparmi di paesaggio e di agroambiente, allora mi chiamavano architetto o ingegnere.
Da noi qui in Umbria come in molte altre regioni oggi serve l'agronomo. Poi è vero, perché lo chiami? Perché ti deve fare la pratica di sviluppo rurale, o altre domande di finanziamento, ma ancora l'associazione progetto agronomico e agronomo o dottore forestale non è automatica. Bisogna fare un lavoro di comunicazione, certo, anche generalista, ma bisogna anche definire bene cosa deve fare l'agronomo a livello progettuale. Come si sa cosa deve fare l'architetto quando si parla di progetto architettonico. Bisogna individuare e definire quale è il progetto agronomico. Coltivare e pianificare un ettaro di grano è un progetto agronomico o è una cosa che può fare l'agricoltore? Stabilire il carico di input in una coltivazione è un progetto agronomico. Identificare la filiera è un progetto agronomico. L'agricoltore fa il grano, qualcuno fa il pane e la chiamiamo filiera. Progettare la filiera significa partire dalla terra, dalla produzione della materia prima e arrivare al cibo e metter insieme questo ci deve essere una figura che è la figura dell'agronomo. Ci sono molte lobby in gioco, alcune che non vogliono che accada, perché questo significa anche un'assunzione di responsabilità.
Questa non è soltanto una battaglia per l'identità di una professione, è una battaglia anche culturale sulla trasparenza del cibo. E' evidente che questo percorso è in atto. Abbiamo visto un incremento delle iscrizioni alle facoltà di agraria dal 2009, non abbiamo visto un calo delle iscrizioni agli albi, nemmeno nel tempo di crisi. C'è una sensibilità e una riconoscibilità. Noi abbiamo fatto a Expo un padiglione che ha avuto 500mila visitatori e la nostra identità e il nostro sapere è stato uno dei contenuti di Expo 2015.
Questo è un momento favorevole. Gli anni del dopoguerra sono stati gli anni delle professioni che hanno consumato suolo, delle professioni che hanno lavorato sul costruire e si sono identificati in modo forte. Oggi sul concetto di sostenibilità, di biodiversità di trasparenza del cibo è il momento degli agronomi. Ma è un ragionamento che va fatto in maniera collettiva, insieme alle università e alle associazioni scientifiche, non possiamo farlo solo noi. Noi siamo la parte terminale che si confronta con il mondo produttivo e istituzionale. E in questi anni per la nostra riconoscibilità non ci ha fatto bene che nelle università ci fossero centinaia di corsi di laurea con nomi diversi. C'è bisogna di restringere il campo ad un'unica figura. Come quando si pensa al medico è il medico, poi ci solo le specializzazioni e gli specialisti, i cardiologi, i pediatri, gli oculisti ecc… Così deve valere anche per l'agronomo".


In questo congresso, e anche nel Manifesto che ne è scaturito si è parlato molto di paesaggio in termini sia di tutela che di messa in sicurezza, ma si può iniziare a parlare anche di restauro del paesaggio? Cioè non solo tutelare quello che di bello c'è, ma iniziare a recuperare e a restaurare quanto in questi anni è stato deturpato o distrutto?
"Lo dicevo nella premiazione del premio Montezemolo che abbiamo dato all'onorevole Borletti Buitoni, che è stata il primo politico che ha cambiato la concezione del paesaggio, istituendo anche una giornata nazionale del paesaggio. Io ho fatto parte della giuria che ha assegnato il premio europeo del paesaggio, cioè della candidatura italiana alla competizione europea, e in questa commissione abbiamo premiato con voto segreto il territorio del parco dei templi di Agrigento, perché ha coniugato l'archeologia con l'agricoltura, perché per poter conservare e gestire estesi territori come quelli di quel parco servono degli strumenti diversi da quelli che erano stati usati fino ad adesso, e in quel caso l'agricoltura è uno di quegli strumenti.
La grande bellezza italiana viene anche dal passato, ma non ci si può fermare alla storia, perché altrimenti vuol dire che noi italiani di oggi, noi professionisti non siamo in grado di progettare e di fare il bello. Dobbiamo inserire nelle regole non più solo il concetto repressivo danno-sanzione, ma anche iniziare a premiare la bellezze, dobbiamo cambiare paradigma, dobbiamo riuscire a rendere ordinario il virtuoso.
A ottobre ci sarà il primo rapporto sul paesaggio italiano e ci saranno gli stati generali del paesaggio, che ovviamente vede una parte fondamentale nel territorio agricolo, forestale e naturale. Ma non basta. Come riqualifichiamo le nostre periferie? Come rivediamo la progettazione l'infrastrutturazione del nostro territorio? L'infrastrutturazione che in questi anni ha portato a un enorme perdita di suolo agricolo. Questo ad esempio nella Pianura Padana è impressionante, l'abbiamo fatta diventare un intreccio di strade, di viadotti, di cavalcavia, di cose a volte forse anche inutili. Non ci siamo resi conto di vivere in un territorio fragile, particolare, fatto di piccole valli, perché anche la Pianura Padana, al confronto delle grandi pianure europee e americane è una piccola valle. Non possiamo fare strade a sei corsie, non possiamo più perdere suolo.
Ormai abbiamo compreso che una fabbrica che fa saponette si può fare in qualsiasi parte del mondo, e si farà là dove fare quel sapone costa meno. L'agricoltura e anche la trasformazione alimentare, perché anche la sola trasformazione ha un legame particolare con il territorio, non si possono fare altrove o ovunque. L'identificazione prodotto-territorio ormai è evidente che è un valore aggiunto.
Anche la realtà dei borghi spesso è da rivedere, perché spesso hanno saputo mantenere la loro identità all'interno, ma le periferie sono uguali tante altra periferie. Il valore di mercato dei beni dipende anche dalla bellezza e dalla qualità della vita che sono in grado di offrire o di comunicare e noi dobbiamo partire da questo. Noi come paese abbiamo questa ricchezza.
Anche la nostra biodiversità e la nostra diversità di prodotti è una ricchezza e anche un modello di innovazione. Se molti nel mondo ce lo copiano non è solamente 'italian sounding' è anche perché ne riconoscono un valore. E quel valore dobbiamo riconoscerlo anche noi, e per poterlo fare diventare un modello di sviluppo dobbiamo investirci politicamente. Se ci facciamo caso, non c'è un ministero che parla di paesaggio, che ha messo nella propria denominazione la parola paesaggio. Da qui si capisce bene che non c'è la cultura del paesaggio. Attualmente il paesaggio si vede solo nell'ottica della coercizione, del non poter fare, del vincolo. E questo non può appartenere a chi vive in un paese che viene definito il Bel Paese, e che il tema del paesaggio ce l'ha nella Costituzione, è antitetico, una contraddizione".